Parlare bene delle donne, trans comprese
Luisa Muraro
5 Aprile 2018
Mi piace il modo che ha Maria Nadotti di dire le cose, anche quelle cattive: soave e sorridente. Non è il mio, e forse anche per questo mi piace. Ma mi lascia perplessa la sostanza del suo dire, per un motivo che ho spiegato in un incontro pubblico in Germania. Una brava blogger, Antje Schrupp, amica di Diotima da molti anni, ha fatto un intervento con severe critiche a quelle donne che, impegnate nella politica ufficiale, secondo lei sono acquiescenti nei confronti della vecchia politica (maschile) e ha chiesto che cosa ne pensassi io.
“Tempo fa, le ho risposto, in un’intervista a una brava giornalista ho espresso la stessa tua idea; quando l’ho letta, stampata, ho trovato che era una brutta intervista e non per colpa della giornalista. E ho capito una cosa: non è affare per me, a me tocca parlare bene delle donne e, quando non posso, tacere”. Il pubblico, femministe di diversa provenienza, per lo più impegnate, ha reagito a queste parole con segni di un’approvazione che io ho sentito autorevole e convincente. Parlo per me, lo ripeto, ma la decisione ha in sé delle ragioni più grandi di me. Devo ancora approfondirle, so che c’è di mezzo una questione di giustizia. E devo ancora approfondire che cosa vuol dire “parlar bene”, sicuramente c’entra anche l’avere cognizione di causa; Simone Weil avrebbe parlato di attenzione.
Aggiungo qualcosa che riguarda Paul B. Preciado. Sul tema, io sostengo una tesi molto impegnativa, che riassumo in poche parole: l’appartenenza di genere non è immutabile ma non per questo possiamo farla rientrare nel disponibile. Penso cioè che la differenza sessuale sia, per l’essere umano, un bene non disponibile.
Con un’aggiunta indispensabile. L’appartenenza di genere, l’assegnazione a un genere, maschile o femminile, che si fa alla nascita della creatura, a volte può risultare sbagliata, per incertezza anatomica. Oppure, anni dopo, per motivi enigmatici di rigetto intimo e personale dell’identità basata sul corpo anatomico: un corpo anatomico maschile, nel caso delle transessuali. Ed è questo il caso in cui siamo d’accordo che sia reso possibile e accettato, culturalmente e legalmente, cambiare il genere sessuale e poter dire: “io sono una donna”.
Preciado parla invece di un atto volontario e intenzionale di rinuncia a essere donna, ma questo è un altro discorso. Le moderne donne emancipate sono o, meglio, erano (eravamo, c’ero anch’io) sulla strada di una finta transessualità al maschile, per motivi più che comprensibili, fino a quando non è intervenuta la rivolta femminista. Così è andata per me, che un giorno, grazie alla scelta femminista, ho detto, per far intendere quella che veramente mi sentivo di essere, “io sono una donna”. Innumerevoli altre, ne conosco alcune, questo l’hanno detto senza bisogno di fare una scelta, per semplice accettazione di sé.