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L’intento di questo numero di Via Dogana 3 è rimettere in circolo la parola autocoscienza, riprendendo dagli scritti di Carla Lonzi elementi che approfondiscano per l’oggi il suo significato e la sua pratica.

Per me uno degli stimoli più forti a ridiscutere di autocoscienza è venuto da un segnale piccolo, ma significativo, captato in una frase ricorrente di Daniela Santoro, una delle giovani della redazione. In varie occasioni Daniela, dopo interventi in cui tirava fuori da sé stessa, da tutte le vicende del suo corpo, un pensiero per l’oggi, concludeva dicendo: “scusate se sono autoreferenziale”.

Allora ho capito che non trovava nel suo vocabolario la parola che nominava quello che stava facendo: autocoscienza. Con questo non voglio dire che Daniela e le altre giovani non la conoscano, anzi hanno molta curiosità nei confronti di questa pratica delle origini del femminismo e desiderano anche farne esperienza. Il problema è che non la trovano come una parola a disposizione per nominare una loro pratica del presente, già in atto.

Rivisitare il pensiero di Carla Lonzi, come hanno fatto Marta Equi e Linda Bertelli nell’introduzione, permette sia di vedere cos’è l’essenziale di questa pratica sia di fare un’apertura di maggiore libertà rispetto alle sue modalità di attuazione.

Io stessa mi sono messa a rileggere gli scritti di Lonzi sull’autocoscienza e mi ha colpito il fatto che per lei il suo senso più profondo consista nel farne “un metodo di pensiero” e così autorizzare ogni donna a rivolgersi al proprio vissuto, per trarne pensiero e una scrittura politica che illumina il mondo.

Per lei è una pratica del pensiero che chiede relazione e non individualismo. Lonzi usa la parola rispondenza. Dice: “non esiste una coscienza di sé senza un’altra coscienza di sé e questo si verifica nella rispondenza” (Il mito della proposta culturale p.141). Quindi è la relazione con un’altra donna il centro dell’autocoscienza. Come scrivono Marta e Linda “è parola su di sé alla prova della relazione con l’altra”. Sottolineano anche che mentre la pratica di autocoscienza è spesso conosciuta come una pratica orale, come parola detta e ascoltata, Lonzi propone soprattutto lo scrivere come “modo della comprensione autocoscienziale” e come “tessuto di verifica del processo trasformativo dell’autocoscienza.”. Con una bella sintesi dicono: “l’andare di pari passo di esistenza, comprensione e produzione simbolica”. Se torniamo all’esempio di partenza, Daniela non può non riconoscersi in queste parole che delineano la pratica che sta facendo assieme al suo gruppo, Le Compromesse, e con la redazione di VD3, basta andare a rileggere la sua introduzione al numero dal titolo Ricominciamo dal corpo.

Seguendo ancora Carla Lonzi si può mettere in discussione l’indispensabilità del piccolo gruppo come modalità unica che ha caratterizzato l’autocoscienza negli anni 70.

Dai suoi scritti l’idea del gruppo risulta più libera. Il gruppo è sì “lo spazio primo” perché ci sia autonomia dal maschile, ma non è un tutto omogeneo, è costituito e intessuto di relazioni nel segno della rispondenza. Il gruppo può anche non esserci. Il gruppo in quanto tale è “disgregabile” e questo non comporta la fine delle relazioni che lo costituiscono. Il gruppo può anche intendersi senso lato, per esempio Rivolta Femminile per Lonzi, oppure per quanto mi riguarda la Libreria delle donne di Milano. In un suo scritto definisce lo stesso femminismo “un gruppo allargato”.

Daniela per questo numero ha interpellato altre giovani e dalla sua indagine emerge la grande difficoltà a costituire un gruppo, quando ciò che contraddistingue questo momento storico è la loro sofferenza per la solitudine e l’isolamento. A queste ragazze direi piuttosto di cominciare a cercare la rispondenza con un’altra donna, di cominciare da una relazione con un’altra donna per prendere la parola.

Già è stato detto da altre che c’era in quegli anni una situazione favorevole che ha permesso il moltiplicarsi e il fiorire di gruppi di autocoscienza in ogni dove. Anche io penso che quella situazione non è ripetibile negli stessi termini. Io ho fatto parte di quella stagione. Quando sono arrivata a Milano nel 1975 mi sono subito avvicinata al movimento delle donne che era molto vivace in città con collettivi, gruppi di autocoscienza, presenza sui giornali, iniziative pubbliche e nascita di luoghi come la Libreria e il Cicip.

Ho visto di persona, attraverso la mia esperienza, come dopo alcuni anni i gruppi di autocoscienza si siano esauriti. Questo per la stessa logica interna dei movimenti, che fanno una fiammata e poi si spengono, e non si può imputare a un gruppo o a una libreria la loro scomparsa. Si attribuirebbe loro un potere spropositato se capace di decretare la fine di un’esperienza che ha interessato tutto il mondo occidentale.

Quella stagione è finita ma l’autocoscienza non è andata distrutta. Linda e Marta ci hanno detto che per Carla Lonzi c’è una parentela molto stretta tra autocoscienza e il partire da sé e questo per me è un punto centrale. Dicono esattamente che “l’autocoscienza è la radice di una cosa preziosissima: la sperimentazione e l’invenzione della pratica del partire da sé. Quindi una specifica modalità del pensiero inaugurato dal femminismo”. Della stessa idea è Luisa Boccia quando scrive che “il valore dell’autocoscienza sta nella nell’aver fatto penetrare in profondità nella realtà sociale femminile l’idea e l’esperienza del partire da sé, ovvero la possibilità di elaborare la soggettività e il pensiero femminile, a partire dal concreto vissuto e dall’io di ogni donna” (L’io in rivolta, p.195).

Quelle stesse donne che avevano a un certo punto abbandonato l’autocoscienza ed erano passate a sperimentare altre pratiche relazionali, si portavano dentro questa modificazione che cambia l’approccio al linguaggio e al mondo.

Parlando di questo numero con Luisa Muraro lei ha così commentato: “Ah sì, come la facevamo allora aveva un che di ritualistico e di stereotipato, ma poi è rimasta nello spirito essenziale, nel linguaggio, nel partire da sé, nel guardarsi dentro, nel non oggettivare le cose, ma essere sempre implicate. Per me si è trasformata ed è nel mio modo di fare”. Posso testimoniare di persona quanto sia vero che ne è rimasto lo stile in Libreria. Quando vi sono approdata, nell’ormai lontano 1983, la frase ricorrente che si sentiva in ogni tipo di riunione era “Parla per te”. Ciascuna era continuamente rimandata a se stessa perché trovasse parole sue per portare un contributo alla discussione.

Le generazioni di femministe che sono venute dopo quella stagione, non hanno mai frequentato gruppi di autocoscienza. Tuttavia se penso a pensatrici come Chiara Zamboni e Wanda Tommasi della comunità di Diotima, io oggi vedo che non sono estranee a questa pratica ma ne sono fortemente influenzate e ne fanno vivere alcuni aspetti essenziali. Basta vedere, per esempio, tutta la produzione di Wanda Tommasi che ha messo a tema nei suoi libri una riflessione filosofica e politica a partire da situazioni anche dolorose della sua vita, come può essere la depressione. Su questo Luisa Muraro mi ha fatto notare un passaggio importante dicendo: “In Diotima c’è un linguaggio che incamera l’autocoscienza e il partire da sé ma allora non la chiamavamo autocoscienza. In Diotima facevamo un’altra pratica. Solo adesso possiamo vedere che ci sono gli elementi dell’autocoscienza. A suo tempo la discontinuità c’è stata per molte, non per tutte. Adesso vediamo la continuità. Adesso vediamo più in grande. Cioè più in grande e più dall’alto”.

In conclusione, mi sento, quindi, di dire che l’autocoscienza è viva, è continuata in altre forme e si esprime in modi che si possono cominciare a nominare.