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Nel 2020, durante la pandemia da Covid-19, ho lasciato la mia stanza a Milano per andare a vivere nella campagna della Marca trevigiana, nella casa del mio fidanzato. In quell’anno, all’amatissimo tavolo in giardino, ho scritto un libro sull’amore e sul suo potenziale politico. Non parlerò molto di questo libro, ma qualche parola vale la pena spenderla: la tesi del libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente.

La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro. Le mie tesi si ispirano soprattutto ad alcune filosofe e pensatrici femministe: Aleksandra Kollontaj, Shulamith Firestone, e una su tutte bell hooks. Il libro è una dichiarazione d’amore nei confronti di mio marito, che seppure in maniera totalmente inconsapevole e involontaria, mi ha messa di fronte all’evidenza di questa relazione bidirezionale tra amore e politica.

L’amore che ci siamo reciprocamente insegnati era come se si allargasse al di fuori della nostra coppia, tanto lo sentivo forte e incontenibile. E d’altro canto, avendo noi una bella differenza d’età, per mezzo di questo amore ho conosciuto il giudizio sociale e il pregiudizio, dagli sguardi della gente, dalle reazioni quando capisce che siamo marito e moglie.

Nelle presentazioni, spesso mi veniva chiesto di fare un esempio pratico dell’amore di cui parlavo, dell’amore che dalla dimensione personale trascende verso quella politica. All’inizio ero evasiva, non sapevo bene nemmeno io cosa rispondere. Di solito dicevo che Il capitale amoroso voleva porre domande e non dare risposte, oppure che se avessi conosciuto la risposta a quel quesito, probabilmente avrei fatto cose più importanti che scrivere libri. Mi vergognavo a parlare di mio marito e comunque sentivo che quello era il punto di partenza, non di arrivo.

È proprio vero che un libro non finisce mai con l’ultima pagina. E soprattutto che è un’impresa collettiva. Portandolo in giro – in piazze grandi e piccole, festival letterari, circoli politici, centri antiviolenza, spazi femministi – il libro è continuato e forse anche io l’ho capito fino in fondo solo quando ho cominciato a parlarne in pubblico. Ho capito soprattutto che sebbene fossi partita dall’amore per Paolo, l’amore di cui parlavo era in realtà l’amore che mi aveva insegnato il femminismo. Soprattutto perché l’amore agapico è un amore incondizionato, nel senso che non mette condizioni e non si aspetta nulla in cambio. Mi sono resa conto che l’essenza dell’amore e l’essenza del femminismo sono la stessa: prendersi cura degli altri, o meglio delle altre, in virtù di ciò che le rende diverse da noi, anche se non condividiamo le loro scelte o abbiamo diversi posizionamenti. La svolta, nella mia politica femminista, è stata proprio questa: accettare che il femminismo non è proselitismo e che spesso serve più a chi non si riconosce in questa parola che a chi la nomina ogni giorno.

Il capitale amoroso è un libro che mi ha dato grandissime soddisfazioni dal punto di vista professionale e umano e la cui scrittura è stata una delle esperienze più arricchenti e profonde, oltre che gioiose, della mia esistenza. Il 2021 è stato un anno luminoso, coronato dalla pubblicazione del libro e poi dal mio matrimonio. Vi sto raccontando tutto questo perché la giornata di oggi è dedicata alle pratiche e all’orientarsi con l’amore. E oggi vorrei parlare di una pratica femminista importantissima che si è intrecciata con questa vicenda, l’amore di sé.

Dopo l’anno stracolmo d’amore che è stato il 2021, nel 2022 sono entrata in crisi. Come spesso accade quando le cose vanno fin troppo bene, all’improvviso tutto è precipitato. Alla fine dello scorso anno sono entrata in depressione, complice anche una diagnosi di disturbo dell’attenzione che è arrivata all’improvviso e mi ha scossa nel profondo, costringendomi a rivedere in prospettiva tutto il mio passato e il mio presente. Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, o ADHD, è un disturbo del neurosviluppo che interessa quasi il 3% della popolazione, che si manifesta principalmente nell’inattenzione e nell’impulsività, oppure in entrambi i modi. Per spiegarlo meglio ci sono due metafore utili. La prima è quella dell’orchestra: nel mio cervello ci sono musicisti bravissimi, tutti virtuosi del proprio strumento. Ma se il direttore perde il ritmo, la sinfonia non può essere eseguita correttamente. La seconda è quella delle schede aperte sul browser: nel mio cervello ce ne sono tantissime e il problema è che funzionano tutte assieme nello stesso momento, rischiando di mandare in crash il sistema.

Non è stato difficile accettare questa diagnosi, anzi, ha contribuito a spiegare molte cose di me stessa. D’altronde, sono io che l’ho cercata e per certi versi desiderata. Ma allo stesso momento questa presa di consapevolezza così grande e totalizzante è stata confusionaria e dolorosa. In particolare, è stato molto difficile fare i conti con un aspetto, ovvero il posto del femminismo nella mia vita. Per me il femminismo è stato quasi sempre un’avventura letteraria, filosofica, spesso molto solitaria. Non avevo intorno a me un ambiente recettivo del femminismo, non avevo persone con cui confrontarmi o spazi in cui “fare” il femminismo. Di conseguenza, per me il femminismo è stato e sempre sarà un atto di pensiero, di creazione, di immaginazione, il contenitore in cui si svolge tutta la mia attività interiore. In quel cervello affollato di musicisti e schede di Internet, il femminismo è il teatro, è il computer.

Quando ho ricevuto la diagnosi e sono entrata in depressione, qualcosa si è spezzato. Perché il femminismo è rimasto lì, a bussarmi con la sua insistenza. Non potevo smettere di pensare al femminismo: perché il femminismo plasma il mio lavoro di giornalista e di scrittrice, in primis, ma anche perché il femminismo è la mia vita. E poi perché in quanto corpo sessuato in ogni secondo della mia esistenza, ogni volta che mi guardo allo specchio o penso al mio corpo, è come ricevere un promemoria. Ogni volta che leggo una notizia sul giornale o sui social, la leggo con le lenti femministe che ormai si sono incollate al mio naso.

Era un bel problema, perché un cervello sovrastimolato come il mio in quel momento aveva bisogno di prendersi una vacanza. Ma come si fa a prendersi una vacanza da qualcosa che ormai è così intelaiato nel tuo essere? Come si fa a prendersi una vacanza da sé stesse?

Le pratiche, dicevamo. In quel momento così difficile ho compiuto un atto d’amore nei confronti di me stessa. Mi sono fermata. Il mio percorso di femminista come dicevo pocanzi è cominciato nella solitudine, ma poi crescendo si è inevitabilmente messo in pratica nella relazione, nella presenza sul territorio, nella militanza politica. L’ho fatto nella mia nuova città, Treviso, dove ho trovato un ambiente adatto al mio carattere e alle mie energie. Difficile, non lo nego, con un maschilismo radicato e combattivo, ma anche fertile e capace di sorprendermi continuamente. A Treviso ho trovato amiche e compagne di percorso, dalle quali mi sono sentita accolta e mai giudicata, pur arrivando con una reputazione alle spalle e inserendomi in un gruppo già consolidato e avviato.

Però a un certo punto per me era diventato tutto troppo. Nei giorni in cui ci riunivamo, la mia vita era come monopolizzata dal femminismo. Magari la mattina avevo scritto un articolo su un terribile caso di femminicidio, nel pomeriggio avevo corretto le bozze del mio libro sul femminismo, poi alle sette di sera prendevo la macchina per andare a parlare di femminismo con altre persone fino alle dieci e mezza. La cosa più dolorosa è che avevo sviluppato sentimenti quasi di rancore nei confronti del femminismo. A volte lo sentivo come un invasore nella mia testa e desideravo non averlo mai conosciuto, per poter godere di una vita più spensierata. Arrivavo a invidiare quelle donne che non avevano compiuto questo passo e potevano permettersi il “lusso”, tra virgolette, di non essere femministe.

Così ho deciso di prendermi una pausa prolungata da quelle riunioni. È stata una decisione molto difficile e sofferta, perché questa pausa è arrivata proprio nel momento in cui mi sentivo di aver abbandonato definitivamente quelle resistenze che sono così tipiche del mio carattere quando si parla di relazioni interpersonali. Cosa sarebbe successo al mio ritorno? Sarebbe stato tutto come prima o avrei avuto l’impressione di essermi persa qualcosa, di dover ricominciare tutto da capo? Questa pausa è stato un coraggioso atto d’amore verso me stessa, ma anche verso le mie compagne nei confronti delle quali sentivo di non essere in grado di mettere a disposizione il meglio delle mie energie e risorse.

Con Il capitale amoroso avevo parlato d’amore fino allo sfinimento, ma mi stavo dimenticando che il primo soggetto dell’amore siamo noi stesse. Spesso si dice, quasi a mo’ di slogan, che non si possono amare le altre persone se non si ama prima se stesse. Io ci credo fino a un certo punto, nel senso che credo anche che l’amore abbia in sé una componente di slancio e di gratuità che è incondizionata e soprattutto che amarsi non sia un obbligo. Però d’altro canto l’annullamento di sé è un campanello d’allarme importante per una relazione che non funziona. Nel mio caso, non mi ero trascurata per l’amore di mio marito o di un uomo, ma per amore di un soggetto indistinto, non so nemmeno se per dire una causa o un’ideologia.

Se dovessi descrivere cosa significa per me in questo momento l’amore di sé in senso femminista userei un’espressione che ho ritrovato in Carla Lonzi: «l’esperienza di combaciare con me stessa». Sento molto vicina la Lonzi della fine degli anni Settanta, quella che ragiona retrospettivamente sulla sua vita e sul senso del femminismo. Non mi sento, ovviamente, di aver raggiunto la stessa maturità, ma in quel frangente sembra che Lonzi torni in qualche modo dentro di sé e si guardi dentro. «Mi sembra che l’amore allo stato puro, se così si può dire, cioè l’amore che si prova per qualcuno», scrive Lonzi «dovrebbe essere il manifestare a qualcuno l’amore che si prova per se stessi […]. L’amore che si ha per gli altri non è che l’espressione di questo volersi bene […]. In questo modo mi sembra spiegabile perché a me è sempre sembrato di essere incapace di amare. Perché io non amo me stessa».

Credo che ciò che dice Lonzi qui sia molto difficile da ammettere e spero per lei questo non amare sé stessa sia stato soltanto temporaneo, che non sia stato qualcosa che l’ha accompagnata tutta la vita. Oggi l’amore di sé è stato trivializzato, oltre che trasformato in un obbligo. Le pubblicità, i giornali, i social ci dicono in continuazione di amare noi stesse, amare il nostro corpo, amarci così come siamo. Mentre ci rassicurano che siano perfette così come siamo, ci sottopongono a uno standard morale altissimo, a un compito che è difficile adempiere con costanza.

L’amore di sé che ho cercato, l’amore di sé di cui parla Carla Lonzi, quel combaciare con sé stesse, credo abbia poco a che fare con questo tipo di richiesta. Perché non è un amore migliorativo, che serve alla nostra autostima. Mi sembra piuttosto un amore che si realizza nella relazione. Non credo sia un caso che Lonzi parli di amore per gli altri come manifestazione dell’amore per sé stesse e non il contrario. Non dice che l’amore di sé è un requisito o un presupposto.

Le donne hanno storicamente assimilato l’idea di sacrificio. Mariti e figli vengono sempre prima, in generale tutti gli altri vengono prima; Pasolini in una poesia scriveva che il vergognoso segreto delle donne era quello di accontentarsi dei resti della festa. Anche quando ci convinciamo di aver finalmente abbandonato l’obbligo del sacrificio, ecco che torna in modi insperati. Anche nella relazione fra donne, nel femminismo, spesso sentiamo la necessità a metterci da parte, per le altre, per un fine più nobile, per mille altre cose. Io credo che il pericolo più grande di questo sacrificare sé stesse sia in fondo quello di allontanarsi dalla nostra autenticità.

Quando ho ricevuto la mia diagnosi, la mia identità è entrata in crisi. Ho dovuto fare i conti con un modo di essere me stessa che mi era quasi estraneo. Ora che ero a conoscenza di una parte di me totalmente nuova, dovevo cercare di non smarginarmi, di non spezzarmi. Il rischio più grande che avrei potuto correre, e dal quale ancora adesso non mi sento del tutto salva, è quello di uno strappo tra la me del passato, inconsapevole, e la me attuale, che sa dare un nome alle cose di sé. In tutto questo, il femminismo rischiava di occupare un posto troppo ingombrante, perché è esattamente il ponte tra la mia identità e la relazione con il mondo.

E così ho preso una decisione d’amore per me, e di conseguenza per gli altri. Ho deciso di rinunciare per un po’ a quella parte di femminismo più difficile da praticare. Amarsi è anche essere indulgenti con sé stesse, mettere dei paletti, dei confini. È così che l’amore di sé riesce a conservare uno slancio verso l’altro senza portare all’autosabotaggio. Fermami è stato una decisione necessaria ma anche sofferta, che però ha portato maggiore chiarezza nella mia testa. Nei mesi in cui ho rallentato tutto, sono tornata a quella forma originaria di femminismo che ultimamente mi sembrava di aver perso per strada, ovvero la scrittura.

Oggi le cose vanno meglio. Sto lavorando per imparare a integrare questa nuova consapevolezza legata alla diagnosi nella mia vita, ma non ci sarei mai riuscita senza questo atto di amore verso me stessa. Penso che alla fine, anche se ho saltato qualche mese di assemblee e azioni, piazze, sarò una femminista migliore. È presto per fare valutazioni e bilanci, ma se crediamo che l’amore sia, come penso, una forza politica, politica è anche sapere quando fermarsi. Chiudo con un’immagine: quella dell’ex premier della Nuova Zelanda Jacinda Ardern che a gennaio si è dimessa dal suo incarico perché era stanca. Spesso di discute su cosa differenzi una politica femminile da una politica femminista. Ecco, io credo che al di là delle leggi e dei decreti, nella sua scelta di dimettersi ci sia un gesto politico profondamente femminista, che partendo dall’amore di sé si riverbera su tutta la comunità.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 Orientarsi con l’amore, 11 giugno 2023