Ora è il kairos
Dora Casadio
15 Dicembre 2023
In certi momenti mi è impossibile restare in silenzio. Ogni minima parte di me mi costringe a parlare. Vinta la paura d’aprirmi, ho parlato. Non è semplice farlo per la prima volta davanti a un pubblico, e ora non è semplice scriverlo.
Ciò che mi ha indotto a dare voce alle mie riflessioni è una fortissima necessità di cambiamento, una necessità che ha radici nelle mie esperienze personali e si è intensificata grazie ai momenti di condivisione e ai confronti costruttivi. Ho capito che le mie esperienze individuali hanno una portata universale, così ho deciso di raccontarle.
Ci tengo a sottolineare che non sono un’eccezione, bensì la regola. Non sono un caso speciale, non mi sento diversa da migliaia di altre donne, mi sento solo una di tante. Ingiustamente una di tante. Ingiustamente perché tante sono le vittime di violenza, e una sono io.
Più volte nella mia vita mi sono ritrovata in una situazione tale da poter denunciare un uomo che su di me aveva esercitato una violenza. Non l’ho mai fatto, in nessuna delle occasioni. Ogni volta mi son ripromessa che, se mi fosse riaccaduto, l’avrei denunciato, ma effettivamente non l’ho mai fatto.
Il senso di colpa è opprimente. Soprattutto perché mi son sempre detta di avere le risorse per affrontare un processo in tribunale: quelle economiche, perché i lunghi e lenti tempi della giustizia in Italia costano caro, ma soprattutto quelle psicologiche, bisogna essere forti per affrontare una causa in cui si viene costantemente messe alla gogna. Le modalità che hanno per farlo sono fra le peggiori, non contemplano la delicatezza della situazione e la profondità delle ferite che gli episodi del genere lasciano.
Evidentemente queste risorse non le avevo. Solo oggi lo comprendo veramente e solo oggi mi ritrovo a confessarlo; quasi a sputarlo, a vomitarlo fuori. Perché a questa necessità non mi posso più sottrarre, esternare il mio vissuto è diventata urgenza. Non per me, ma per le altre donne che questa urgenza ancora non la sentono, perché non hanno i mezzi, non riescono a distinguere quale sia un comportamento violento o no, cosa sia una relazione tossica o meno, o forse perché hanno giustamente paura, paura anche di non essere credute. Per prime, tante volte, noi stesse non abbiamo gli strumenti per riconoscere queste situazioni, o se li abbiamo, temiamo le ripercussioni. Men che meno li hanno gli uomini, vittime anche loro di questa società maschilista. Questo è il punto: è necessario che si sviluppi una nuova coscienza collettiva che includa entrambi i sessi in un rapporto di totale equità, per un beneficio comune.
Alle elementari mi chiamavano “l’avvocato delle cause perse”, perché su di me gravava ogni ingiustizia. Son cresciuta così, a difendere i miei diritti e quelli degli altri. Nonostante questi fossero i miei valori, non ho saputo tutelarmi dagli episodi di violenza, episodi simili a quelli che quotidianamente tante donne vivono. Non parlo solo di violenza fisica, che è la più riconoscibile, ma anche quella verbale, psicologica ed economica; a volte anche il silenzio è violenza.
Una volta un buttafuori in discoteca, un’altra un medico o un professore, magari un passante per strada… tanti sono gli esempi che ognuna di noi potrebbe fare.
L’esperienza più traumatica della mia vita è stata il mio primo amore.
Non auguro a nessuno che queste due cose, un uomo violento e l’amore, si trovino insieme, ma sono sicura che capiti spesso. Quando li incontri per la prima volta il binomio è logorante. Non hai l’esperienza dalla tua parte, solo una vaga conoscenza teorica che nulla può contro le emozioni. Ancora prima di rendermene conto, mi sono ritrovata in un vortice di brutalità che mi ha travolta. Ho perso tutto ciò che credevo definisse la mia identità. Non mi riconoscevo più in quella persona. Vivevo il dolore che provavo, sì, ma lo vivevo lontano, perché quel corpo era solo un contenitore dell’anima che andava man mano svanendo. Terribile era il senso di impotenza e angoscia, terribile quello di estraniamento. Nella mia mente ho immaginato più volte l’ennesimo titolo di giornale che parlava di femminicidio, con il mio nome. Ma il dolore più grande è stato pensare alle persone a cui voglio bene e al male che ho causato loro quando hanno saputo in che situazione ero. La donna emancipata che credevo di essere, non lo ero più e forse non lo ero mai stata. Rimane solo un sentimento d’intensa vergogna. Quella che si prova davanti a una sconfitta enorme, quella che ti fa pensare che il problema sia tu, e non il tuo carnefice.
Ho avuto la fortuna di riuscire a uscirne. È importante in questi momenti saper chiedere aiuto, e adesso, nonostante siano passati anni, non posso più tacere. Sento il fortissimo bisogno di parlare. Che la mia esperienza orribile diventi utile. Che il mio dolore eviti altro dolore e diventi forza per le donne là fuori che non riescono a svincolarsi da queste situazioni paralizzanti. Perché là fuori, davanti alle ingiustizie, il mondo non si scandalizza e spesso tace. Si sente meno il peso della colpa quando i crimini li legittima la società in cui si vive.
Io non ci sto più. Voglio che si sviluppi una nuova consapevolezza. Non posso pensare che tutto questo male non porti a niente. Deve alimentare il fervore delle nostre battaglie. Dobbiamo metterci al servizio di questa causa, ora più che mai. Troppe vite sono state strappate inutilmente. Troppe donne vivono ancora nella paura. Farò di tutto per piantare semi, agire, produrre cambiamenti. Cercherò di far capire agli uomini che quella donna che viene maltrattata, strumentalizzata, umiliata e mortificata, potrebbe essere loro figlia, madre, sorella, moglie, compagna o amica, e farò di tutto per far capire che nessuna lo merita.
Amica non sei sola, parla, racconta, denuncia anche tu. Liberati e liberiamoci.
Dicono che ora sia il kairos. Ora è il kairos.
È il momento giusto per la nascita di un nuovo femminismo, un femminismo che includa anche gli uomini.