Nutrire il desiderio di cambiamento
Marco Deriu
15 Ottobre 2020
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020
Immaginate che un virus sconosciuto salti fuori da qualche parte, incominci a infettare gli esseri umani e che dia origine in breve tempo a una pandemia globale che trasforma la realtà e la vita non soltanto della vostra famiglia e della vostra città, ma di tutto il paese e di tutto il mondo. Che succede a quel punto? Come reagisce la gente? Come si muovono le autorità? Che fine fa la vostra comunità o lo stesso consorzio umano? E soprattutto: voi di cosa vi dovete preoccupare?
L’industria culturale occidentale (anglosassone ed europea) contemporanea, in particolare quella del cinema, delle serie televisive e ancora più quella dei videogiochi – divenuta la più potente fabbrica di immaginari nelle società contemporanee – ha dedicato uno spazio (e un budget) enorme a esplorare tali questioni. La lista di film e serie tv dedicate ai virus e alla pandemia negli ultimi vent’anni si aggira attorno ad una cinquantina di titoli. Solo per ricordare le più famose: 28 Days Later, I Am Legend, [Rec], Carriers, Contagion, The Bay, World War Z, Extinction, Contagious, It Comes at Night, Hostile, Survivors, The Walking Dead, Z Nation, The Strain, The Last Ship, Cordon, Containment, Between, The Rain, Black Summer ecc. Mentre nell’industria dei video game si è sviluppata un’intera categoria di giochi cosiddetti “horror survivors” – Epidemic, Resident Evil, Plague Inc, Dying Light, The Last of Us, World War Z, Days Gone, Pandemic, Follia Dear Father ecc. – che hanno segnato profondamente l’immaginario contemporaneo delle ultime generazioni.
1. Il virus dell’immaginario e la lotta per la sopravvivenza
Nonostante la numerosità dei prodotti e delle proposte il plot di fondo è piuttosto standard e le possibilità e le variazioni piuttosto ristrette. Che gli agenti infettanti arrivino da animali, da scienziati pazzi, da terroristi o ecoterroristi, dal cielo o magari da qualche figura di “straniero” o “immigrato”, il risultato non cambia molto. Le autorità politiche mostreranno la loro incapacità di prendersi cura delle persone e di gestire la situazione, il tasso di fiducia verso le istituzioni – già pericolosamente basso – si squaglierà rapidamente come neve al sole, lasciando come unica figura rilevante (nel bene o nel male) nello spazio pubblico quella dell’esercito, delle forze dell’ordine se non delle forze speciali ufficiali o autocostituite in nome della sicurezza e della protezione. Assieme con le istituzioni pubbliche, tutte le conquiste di civiltà, le norme, i valori e le pratiche sociali convenzionali saranno brutalmente spazzate via. La città, il territorio, il paese (il mondo intero?), diventeranno terreno di caccia (e ovviamente anche di fuga in cerca di salvezza). Gli spazi collettivi e anche quelli domestici privati saranno invasi da uomini infetti, rabbiosi o furiosi, regrediti dal virus a cannibali, mutanti, zombie morti viventi, vampiri succhiasangue o bestie mostruose. La salvezza, ma dovremmo meglio dire la sopravvivenza, diventa un affare privato. Lo spazio pubblico della comunità è paurosamente ridotto o è del tutto scomparso. È la tua sopravvivenza, o quella della tua famiglia o del tuo gruppo. E per la tua o la vostra sopravvivenza dovete rapidamente imparare a cavarvela, a procurarvi il cibo, ad armarvi e barricarvi se potete o al peggio a proteggervi dalla violenza altrui, a fuggire e a nascondervi. I vostri valori sociali, la vostra etica, la vostra visione del mondo dovranno comunque subire un radicale rivolgimento. Restano dunque eroi o salvatori, ma anche questi ultimi saranno obbligati a scelte drastiche e ad accettare i propri istinti e a “giustificare” la propria parte oscura e violenta.
Insomma, il sottointeso è che basta un piccolo virus per innescare una catastrofe e grattar via la patina di civiltà, riportando indietro l’umanità al suo “stato di natura”, ovvero all’idea della “lotta per la sopravvivenza” del darwinismo sociale, che nella tradizione filosofico-politica di Hobbes assume l’immagine della bellum omnium contra omnes, “la guerra di tutti contro tutti”.
Il “nucleo ideologico” di questa rappresentazione contemporanea è riconducibile al fondo dell’idea esplicitata da un recente “disaster horror” movie (Aftershock di Nicolás López) secondo cui: «l’unica cosa più terrificante di madre natura è la natura umana». Una sentenza metafisica che sintetizza contemporaneamente un pregiudizio ecologico e antropologico. Non si tratta dunque di prendersi cura dei malati o di impegnarsi collettivamente a prevenire la pandemia, ma di sopravvivere al virus e al contagio combattendo contro altri umani, contro gli infetti, i mutanti, i mostri, insomma contro tutte le possibili proiezioni dell’alterità.
Certo, penserete, il cinema, l’arte, il gioco esteriorizzano amplificano e danno forma alle nostre angosce, cercando in qualche modo di esorcizzare le nostre paure. Ma questo immaginario non è così universale come potremmo pensare. È un prodotto della nostra cultura e della nostra (iper)modernità capitalistica. Basta andare indietro di pochi decenni per riconoscere che le paure, gli incubi ma anche le attese e l’immaginazione collettiva erano differenti e seguivano altre strutture narrative. Basta guardare ad altre culture e riconoscere che la “visione” imbocca altre strade e la narrazione sviluppa altri intrecci, perfino di fronte alle stesse minacce (si veda per esempio 93 days di Steve Gukas, che racconta altrimenti la drammatica esperienza dell’epidemia di Ebola in Nigeria).
Che quello che abbiamo tratteggiato si configuri come un “nucleo ideologico” profondo e specifico è riconoscibile dal fatto che la maggior parte delle culture non occidentali non solo non condividono affatto con noi l’idea di una natura terrificante e di un’umanità bestiale, ma non comprendono nemmeno la separazione netta tra umani e natura che la nostra cultura dà invece per scontato. Il paradosso è che quella immagine della natura, degli animali, dell’umanità che noi propagandiamo e proiettiamo anche sugli altri popoli (si pensi alle rappresentazioni tutt’ora diffuse in una parte della letteratura “scientifica” – anche se sempre più contestate – degli indigeni come “popoli feroci”) è radicalmente più selvaggia e violenta di quella proposta dai popoli indigeni.
Si prenda per esempio quella straordinaria lezione che il leader e sciamano yanomami Davi Kopenawa ci ha regalato attraverso il libro scritto insieme all’antropologo Bruce Albert La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami (nottetempo, Milano, 2018): «Quando parlano della foresta, i Bianchi utilizzano spesso un’altra parola: ‘‘ambiente naturale’’. Neanche questa è una delle nostre parole e fino a poco tempo fa ancora la ignoravamo. Per noi, quello che i Bianchi chiamano in questo modo è ciò che resta di tutto quello che finora hanno distrutto. Non mi piace la parola ‘‘ambiente’’. La terra non dev’essere separata dall’ambiente. Noi siamo abitanti della foresta e se essa viene divisa in questo modo, sappiamo che moriremo con essa». Per i popoli indigeni la foresta è viva, la terra, le piante, gli animali, tutto quello che si muove attorno a noi è vivo. Ha cioè una sua soggettività, una sua agency e soprattutto è intrecciata in una complessa e “invisibile” trama di relazioni con noi.
L’immaginario che oggi ci ingombra nel leggere la realtà che stiamo vivendo e le emergenze ecologiche, sanitarie, economiche e politiche è dunque un immaginario occidentale, bianco, capitalistico, (iper)moderno, ed in gran parte maschile, nel doppio senso di prodotto di una cultura patriarcale ma anche di ritagliato sull’immagine di una “specifica maschilità”, aggressiva e violenta. Da questo punto di vista è interessante rivedere il tentativo più originale e profondo di Light of My Life, il recente film di Casey Affleck. Una storia tutta giocata sul rapporto intimo tra padre e figlia costretti a un continuo vagabondaggio dopo che un virus ha sterminato la popolazione femminile. La minaccia, ma anche l’eroe e i diversi ruoli attribuiti ai protagonisti rimangono ancora in gran parte imprigionati dentro un immaginario maschile, ma c’è anche uno spostamento significativo: il tema della differenza sessuale e quello del conflitto tra i sessi vengono riconosciuti; c’è il tentativo riflessivo di rimettere in discussione una maschilità monolitica, di mostrare soggettività e modi d’essere umani e maschili diversi. E soprattutto si percepisce – quantomeno come potenzialità da nutrire – il desiderio di una diversa relazione tra generi e generazioni.
Quello su cui insisto dunque è che c’è oggi un conflitto anche sul terreno dell’immaginario, della dimensione simbolica che va affrontata con forza, se vogliamo superare quell’atmosfera di “realismo capitalista” come l’ha definita Mark Fisher, che costituisce assieme una cappa e una barriera invisibile «che limita tanto il pensiero quanto l’azione» (Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma, 2018). L’antropocentrismo, l’individualismo, l’ossessione per la lotta e la competizione, il senso continuo di sospetto e minaccia fino alla paranoia non sono un dato di fatto ma una metafisica, un’ideologia e anche un’attitudine culturale e psicologica che pretendiamo di naturalizzare e normalizzare scambiandola per la realtà. Ma gli esseri umani e più in generale il vivente nonostante i riduzionismi pseudoscientifici non è riducibile semplicemente alla competizione; e l’interesse personale ed egoistico non è quella chiave o motivazione universale che gli vogliamo attribuire ma un prodotto della modernità capitalistica. Nella trama della vita si alternano e si intrecciano simbiosi e mutualismo, cooperazione e competizione, predazione, parassitismo e commensalismo. Ma il nostro sguardo ideologico, mentre pretende di essere “realistico” o “disincantato” ci impedisce in realtà di leggere e orientarci veramente nella complessità del reale e della nostra stessa esperienza.
La proposta dunque di riflettere sulla “grande occasione” che la situazione di emergenza innescata dalla pandemia e il necessario tentativo di ripartenza oggi rappresentano non costituisce ai miei occhi una provocazione, ma piuttosto un invito a guardare le cose con occhi diversi, non dando per scontato il senso comune, mettendo da una parte i pensieri automatici, e provando a vedere le possibilità e le potenzialità che la straordinarietà della situazione ha dischiuso.
2. L’indicibile solidarietà
Proviamo dunque a rileggere quello che abbiamo vissuto. Non c’è dubbio che durante la pandemia abbiamo visto e stiamo vedendo i comportamenti più vari. Abbiamo visto persone nascondersi, e sottrarsi ai loro doveri e responsabilità, persone capaci di approfittarsi, di lucrare sulla situazione di necessità, o addirittura di truffare cittadini e istituzioni. Abbiamo visto politici, capi di governo e di stato negare la gravità della situazione, dileggiare la scienza, preoccuparsi più del Pil che della gente e in qualche caso atteggiarsi a virili superuomini anche dopo aver contratto il virus. Abbiamo visto anche manifestazioni di negazionisti scesi per strada per protestare contro le norme sanitarie o le mascherine.
Abbiamo anche visto – soprattutto nel periodo del lockdown e del confinamento domestico – un aumento delle violenze maschili contro le donne nelle case e nelle relazioni intime. La Rete D.i.Re. – Donne in rete contro la violenza ha evidenziato nel periodo marzo-aprile un aumento del 74,5% di richieste di supporto ai centri antiviolenza, mentre l’Istat ha segnalato un incremento della richiesta d’aiuto al numero antiviolenza 1522 del 73%. Fatto questo che dovrebbe spingerci a interrogare le relazioni tra i sessi e le forme di potere e di ambivalenza che attraversano le strutture famigliari.
Ma certamente non abbiamo registrato quella degenerazione sociale, politica e umana che l’industria culturale occidentale ha profetizzato e propagandato. Non c’è stato il collasso delle istituzioni, il diffondersi dell’anarchia, l’esplosione della violenza o delle forme di sciacallaggio e di comportamenti predatori. Così per esempio l’informazione fornita dal Ministero dell’interno, che nell’ultimo anno c’è stata una forte diminuzione della criminalità nel nostro paese, con un forte decremento degli omicidi (-16,8% di omicidi), delle rapine (-21,1%), dei furti (-26,6%), e delle truffe (-11,3%) che avrebbe meritato una certa considerazione e una maggiore riflessione è stata del tutto oscurata dal prevalere delle notizie di cronaca nera.
E per quanto giornali e telegiornali mettessero in primo piano le violazioni o i comportamenti irresponsabili, alternandole simmetricamente alla narrazione dell’eroismo “straordinario” del personale medico sanitario, c’è stata poi la maggioranza della popolazione che ha assunto per lunghi mesi dei comportamenti socialmente responsabili, tutelando se stessi, i propri cari e gli sconosciuti. Persone, famiglie, cooperative, associazioni, imprese, negozi, ristoranti, scuole, università che pur con la confusione hanno tentato di organizzarsi, di rispettare le norme, di portare il proprio contributo. Tantissimi lavoratori e professionisti – e non solo in ambito medico – ci hanno messo del proprio, si sono messi in gioco, hanno assunto dei rischi, hanno fatto di più di quello che contratti o stipendi gli richiedevano.
Ma c’è anche dell’altro. Se non ci facciamo prendere dal timore di essere presi per ingenui o buonisti o superficiali ottimisti, possiamo nominare e dar conto con forza di un grande movimento di solidarietà che si è sviluppato in questi mesi. In tante città e territori in Italia come nel resto del mondo abbiamo visto donne, uomini, associazioni, gruppi di cittadini/e che si sono attivati per fornire cibo e supporto ai medici e al personale ospedaliero; per far la spesa per anziani e malati e per distribuire cibo, mascherine, e medicinali; per trasportare e accompagnare persone per visite, esami, ricoveri; per mettere in piedi raccolte di fondi e sostegni economici; per distribuire computer, tablet e dispositivi digitali; per condividere e scambiare materiale scolastico (libri, testi, appunti, compiti) e aiutarsi nell’impegno scolastico educativo dei bambini; per mettere a disposizione e compartecipare produzioni artistiche, musicali, letterarie, cinematografiche al di fuori delle regole normali di mercato; per offrire sostegno diretto o telefonico contro la solitudine; per aiutare e supportare le donne vittime di violenza; per supportare immigrati, rifugiati, senza tetto; per offrire forme di supporto psicologico volontario a coloro che hanno subito un lutto o per organizzare una restituzione dignitosa degli oggetti personali dei defunti; o persino carabinieri e agenti che hanno portato la pensione a casa dagli anziani. In molti contesti locali le forme di generosità e di solidarietà autorganizzata, le iniziative informali, spontanee e dal basso, hanno avuto un peso e un ruolo cruciale per affrontare l’impatto della pandemia e del blocco economico. Certamente da questo punto di vista l’Italia ha dato mostra di una società civile particolarmente attiva e creativa, ma iniziative di cura, di supporto, di cooperazione e solidarietà dal basso sono fiorite in po’ dappertutto. Marina Sitrin e il gruppo internazionale “Colectiva Sembrar” ne hanno dato ampia testimonianza nel volume Pandemic Solidarity (Pluto Press, London, 2020) intervistando e dando voce ad esperienze in diversi paesi dal Medio Oriente al sud ed est Asia, all’Africa del Sud, all’Europa, al Nord America e al Sud America. Esperienze nate nello spirito del muto appoggio e della solidarietà dal basso, spesso sfidando la diffidenza e talvolta l’aperta ostilità delle autorità. Come ha scritto Marina Sitrin queste storie e queste esperienze «manifestano il tipo di società che potremmo avere e, di fatto, già abbiamo. […] Questa pandemia sta creando piccole e grandi fessure, cosa fare con queste aperture dipende da noi» (Sitrin & Collectiva Sembrar, 2020, p. xxiv)
Non si tratta dunque di rimuovere la complessità, l’instabilità e anche la contraddittorietà della situazione attuale con l’inevitabile compresenza di elementi problematici e negativi accanto a quelli positivi e incoraggianti. Ma la questione non è fare della contabilità tra i pro e i contro e nemmeno scommettere in maniera distaccata su cosa prevarrà alla fine. Il punto politico è un altro: se il nostro cinismo e il nostro immaginario tardocapitalistico non ci permette di vedere, nominare e dare dignità all’enorme sforzo di comportamento cooperativo che si è registrato in questo periodo, allora come possiamo nutrire e far spazio all’idea di una trasformazione politica e di una transizione verso una società differente?
3. Se la calamità dischiude il desiderio di cambiamento
Diversi decenni di studi approfonditi sulle reazioni delle comunità locali a calamità ed eventi catastrofici di vario genere testimoniano che nelle situazioni di disastri le persone reagiscono in maniera molto più costruttiva e altruista di quanto il nostro immaginario sociale sia disposto ad ammettere. Come scriveva negli anni ’60 il sociologo Charles Fritz nel volume Disasters and Mental Health: Therapeutic Principles Drawn from Disaster Studies, recentemente ripubblicato (Disaster Research Center, CoomBooks, 2020), «Le notizie di saccheggi in caso di catastrofi sono grossolanamente esagerate; i tassi di furto e furto con scasso effettivamente diminuiscono durante i disastri; e molto di più viene dato via che rubato. Altre forme di comportamento antisociale, come l’aggressività verso gli altri e i capri espiatori, sono rare o inesistenti. Invece, la maggior parte dei disastri produce un grande aumento della solidarietà sociale tra la popolazione colpita, e questa nuova solidarietà tende a ridurre l’incidenza della maggior parte delle forme di patologia personale e sociale». Riprendendo quel filone di studi, più recentemente anche Rebecca Solnit (Un paradiso all’inferno, Fandango, Roma, 2009) ha sottolineato il sorprendente divario tra le convinzioni correnti in caso di disastro e le realtà degli effettivi comportamenti della gente e ha insisto sulla necessità di riconoscere le pratiche sociali emergenti in situazioni di difficoltà: «La parola emergenza viene da emergere, ossia salire alla superfice, il contrario di mergere, ossia immergere, affondare in un liquido. Un’emergenza è una separazione da ciò che è familiare, un’improvvisa emersione in una nuova atmosfera, in cui spesso ci viene chiesto di essere all’altezza della situazione».
La pandemia di Covid-19, pur presentando sue specifiche caratteristiche, manifesta anche diversi elementi in comune con le esperienze di altre calamità e disastri nelle quali le comunità e le persone non hanno semplicemente assunto il ruolo di vittime passive, ma hanno reagito e messo in campo risorse, esperienze e piccoli cantieri di pratiche sociali e politiche.
La calamità prodotta dalla pandemia ha creato certamente una situazione altamente drammatica, dolorosa e luttuosa, ma in termini sociali, economici e politici, ha aperto anche degli spazi nuovi e differenti da quelli concessi nella nostra normalità. Ha messo in crisi e stravolto i modelli di comportamento abituali delle persone, ma anche delle istituzioni e dei soggetti collettivi. Ha obbligato ad una ridefinizione della situazione e a delle scelte e dei criteri più adatti a quelli del contesto attuale. Ha determinato nuove forme di interazioni che non dipendono in toto dal sistema sociale e organizzativo preesistente ma che rispondono anche alle situazioni e alle esperienze prodotte dalla nuova situazione. Per esempio, è importante nominare il fatto che in questo periodo si sono registrate delle forme di condivisione personale, emotiva, esistenziale molto più forte e spontanea di quanto accadeva nella normalità, per così dire più ingessata, della vita pre-covid. Si sono dunque andati ridefinendo o ristrutturando quei vincoli che definivano le forme di espressione emotiva e di comunicazione, con compagni/e, parenti, amici/che, condomini, vicini/e di casa, negozianti di quartiere, personale medico o infermieristico, o addirittura persone incontrate in qualche fila in attesa, ci si è ritrovati più facilmente e spontaneamente a parlare più facilmente di dolore, di paura, di vergogna, di sensi di colpa, di angoscia, di speranza, di amore. La Pandemia ci ha dato l’occasione importante per tornare a parlare insieme di esperienze condivise, di paure condivise, di difficoltà condivise, di aspirazioni condivise.
La situazione attuale ha a più livelli illuminato aspetti invisibili della realtà precedente – della cosiddetta normalità – e li ha reinterrogati e risignificati nel bene e nel male. Si pensi al riconoscimento e alla valorizzazione di mestieri ieri invisibili e al ruolo di infermiere/i, OSS (operatori e operatrici socio-sanitari/e), di addette/i alla pulizia, di badanti, di trasportatori, di rider, ecc… Tutta una serie di mestieri e di lavori che hanno reso possibile la nostra sopravvivenza quotidiana hanno rivelato improvvisamente la loro centralità nelle nostre vite e società.
Le differenze nelle forme di lavoro, di contratti, di garanzie, di sussistenza sono diventate più visibili, più “pubbliche” e hanno stimolato discussioni, interventi, norme straordinarie.
Anche alcuni degli aspetti problematici della nostra normalità economica o sociale, come per esempio le abitudini ecologiche e alimentari connesse alla distruzione degli ambienti e al mercato degli animali esotici, o alle abitudini igieniche o sanitarie, o a quelle sociali come l’alimentazione, gli spostamenti e i viaggi hanno mostrato ad un tratto la loro natura problematica o addirittura insostenibile.
Di fatto sono stati – almeno parzialmente e temporaneamente – ridiscussi e ridefiniti valori, priorità, norme e obiettivi. Per la prima volta si è affermato pubblicamente che il Pil, il mercato, la produzione non sono priorità indiscutibili. Nel bene e nel male, l’emergenza ci ha costretto a mettere tra parentesi i quadri di riferimento passati e futuri e a concentrare l’attenzione sui bisogni immediati, momento per momento, giorno per giorno, a fronte delle condizioni emergenti. E qualunque siano le scelte e i risultati finali, mai come in questo periodo è stato chiaro a tutti, che la politica attiene all’ascolto, alla mediazione e all’equilibrio tra esigenze, necessità, valori, interessi ed aspirazioni differenti.
Insomma, questa situazione ha reso le persone, ma in qualche misura anche i soggetti collettivi (istituzioni, imprese, scuole, università), più aperti e suscettibili al cambiamento e alla trasformazione. Le ricerche sulle calamità ci ricordano d’altronde che le società colpite da disastri spesso rigenerano la loro vita sociale con ulteriori incrementi di vitalità, capacità di ricostruzione e integrazione.
È chiaro che gli stimoli e le pressioni non sono tutti in direzione di un miglioramento. Anche nelle situazioni di emergenza c’è sempre ovviamente una forza conservativa, una spinta a ritornare alle modalità tradizionali o addirittura a rafforzare certe forme di potere e di controllo.
Ma c’è al contempo una tensione, una finestra di possibile cambiamento che per un certo periodo rimane virtualmente aperta e consente di immaginare possibili cambiamenti, soprattutto se le condizioni di vita oggettiva diminuiscono i rinforzi alle vecchie abitudini e alle vecchie risposte. Parlo di “tensione” per dire che in queste situazioni più che in altri momenti il conflitto e la ridiscussione degli schemi abituali apre uno squarcio e rende possibile nella nostra testa e nella nostra quotidianità immaginare altre direzioni o altre opportunità, risposte diverse ai nostri problemi e necessità. Parlo di “tensione” anche per sottolineare l’importanza del conflitto: il conflitto, politico, sociale economico può rigenerarsi in questa situazione o assumere forme nuove. Non è scontato che il cambiamento si radichi nella realtà, magari prevarranno le forze e i poteri tradizionali. Magari verranno confermate o esacerbate le già evidenti diseguaglianze. Ma non bisognerebbe avere troppa fretta e rischiare con un facile cinismo di accompagnare e affrettare una reazione conservativa. In questo frangente è cruciale illuminare – nelle nostre vite, nelle nostre realtà sociali, famiglie, comunità, istituzioni, università ecc. – l’emergere di un desiderio di cambiamento sociale, che oggi è più vivido che in altri momenti, e prendersi cura per quel che possiamo di questo desiderio. Dobbiamo nominarlo, curarlo, nutrirlo, innaffiarlo e anche lottare per farlo maturare. Consapevoli che la questione non è come creare dal nulla un nuovo mondo una volta per tutte, ma piuttosto come mantenere acceso in noi e nelle nostre realtà questa aspirazione e questo desiderio e di trasformazione e creazione sociale e politica.
4. Percorsi maschili: dalla guerra al virus al riconoscimento della vulnerabilità e alla centralità della cura
Nei mesi passati ho avuto occasione di confrontarmi e misurarmi sul tema della cura su diversi piani. Da una parte in casa, con la fatica costante di trovare un equilibrio tra lo smartworking mio e di mia moglie e le necessità della famiglia in un tempo quotidiano completamente rivoluzionato dal lockdown e dalla chiusura della scuola di mio figlio. Dall’altra con il lavoro universitario che è continuato e che per me – come responsabile di un corso di laurea magistrale – ha significato occuparmi non solamente delle mie lezioni ma anche di tutte le difficoltà e i problemi di colleghi e colleghe, di studenti e studentesse emergenti in questa strana situazione. Questa attenzione e questo continuo dialogo e intervento, che mi ha preso molte energie e tempo, è stato per me anche un impegno di cura verso un contesto di insegnamento e di apprendimento che si fonda e dipende dalle relazioni e dal clima relazionale molto di più di quanto le istituzioni tendono a riconoscere. Poi mi è capitato di avere diverse esperienze di confronto con altri uomini.
In primo luogo, insieme all’amico Maurizio Artoni abbiamo promosso – all’interno del Progetto europeo “Parent” (capofila l’associazione “Il Cerchio degli uomini” di Torino) – un percorso intitolato “Cerchio dei papà. Incontri per futuri e neo padri” nel territorio di Montecchio, che ha coinvolto una ventina di neo o futuri papà, compresi i due conduttori, e che ha continuato a incontrarsi prima in presenza e poi in remoto da febbraio fino a dopo l’estate e che avrà anche un seguito. È stato particolarmente bello avere questo confronto tra uomini in questo periodo speciale – prima, durante e dopo il lock down – e accompagnarsi tra uomini nell’esperienza della nascita di bambini e contemporaneamente nel “venire al mondo dei padri”. Come padre di un bambino di nove anni ho condiviso con questo gruppo di neopapà il desiderio ma anche le fatiche di una paternità differente. Il piacere di poter socializzare l’esperienza della paternità e della cura dal punto di vista maschile, lo stupore di riuscire a parlare intimamente con persone conosciute da poco, il confrontarsi con le attese e l’esperienza di altri padri. Anche le madri hanno contribuito all’esperienza, non soltanto incoraggiando o sostenendo i loro compagni nel desiderio di coinvolgersi in questa esperienza ma anche partecipando in un paio di occasioni al confronto e allo scambio.
In secondo luogo, con gli amici dell’Associazione Maschile Plurale abbiamo dedicato quest’anno a scrivere e confrontarci attorno a un testo collettivo dal titolo «Uomini e donne: da dove ripartire? dalla retorica della “guerra al virus” al riconoscimento della vulnerabilità e alla centralità della cura». Il testo è stato discusso prima dentro l’associazione, poi con i gruppi e le reti di uomini locali e ora verrà diffuso e lanciato all’esterno invitando donne e uomini a confrontarsi in un incontro pubblico a novembre. Nelle nostre riflessioni siamo partiti dal notare come molti leader politici, amministratori, giornalisti, commentatori e perfino medici per raccontare lo sforzo medico sanitario, non hanno trovato di meglio che ricorrere al consueto linguaggio bellico maschile: la “guerra” contro un nemico invisibile, i medici erano “in trincea”, le “armi” per battere il virus ecc. Ci siamo chiesti se questo linguaggio non renda più difficile entrare in un’ottica differente di promozione della salute, di educazione alla responsabilità, di impegno di cura e di assistenza. Abbiamo poi riflettuto sul fatto che per molti uomini è ancora molto difficile mettere a tema e riconoscere il l’esperienza della vulnerabilità. Si pensi a come alcuni politici di primo piano da Bolsonaro, a Johnson, a Trump hanno fatto fatica a immedesimarsi con l’esperienza della malattia e della sofferenza e hanno continuato a tenere atteggiamenti virilisti fino al grottesco. Viceversa, abbiamo insistito sul fatto che l’esperienza della pandemia rappresenta l’opportunità di riconoscere quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri, quanto la vita stessa riposa su una trama di interdipendenze. E come perfino nel chiuso delle nostre case abbiamo continuato a dipendere per la nostra sopravvivenza da un’infinità di persone, soggetti, servizi, organizzazioni, tecnologie. Ci siamo infine confrontati con le diseguaglianze nel lavoro e nella cura: sulla precarietà e l’invisibilità di certi lavori; sul ruolo straordinario avuto dalle donne sia nelle professioni, sia nell’impegno di cura ed educativo in famiglia; abbiamo parlato della fatica a ridiscutere i tempi frenetici del lavoro che la pandemia ha messo in discussione; ma abbiamo voluto anche nominare il desiderio di alcuni uomini di essere padri diversi, compagni diversi, colleghi di lavoro diversi e di testimoniare un altro modo di vivere e interpretare la propria maschilità. Anche per noi uomini dunque, questo momento è un’occasione straordinaria. Sta a noi decidere se e quanto vogliamo provare ad approfittare di questa occasione per cambiare noi stessi e le nostre relazioni con gli altri e col mondo. Non abbiamo ricette o certezze, ma ci sembra di intuire che la strada giusta è quella di provare a rimettere al centro delle nostre vite e al centro dello spazio pubblico valori differenti come il rispetto della vulnerabilità, l’accettazione dell’interdipendenza, il riconoscimento delle differenti soggettività, l’importanza della cura, la valorizzazione della cooperazione e della solidarietà.