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L’invito di Luisa Muraro mi ha molto sorpreso. L’ho accettato per la lunga relazione che mi lega a lei e a questo luogo. E anche perché condivido la posizione, da Luisa riaffermata qui all’ultimo incontro di Via Dogana 3, per una più convinta ricerca di scambio tra donne e uomini e per una pratica politica comune. Ho pensato: «Non sono madre. Non sono gay. Che ci faccio qui?»

Ma la questione della gestazione per altri (Gpa) interpella noi uomini, e noi eterosessuali: un soggetto rimosso in questo dibattito su scelte che coinvolgono in realtà una maggioranza di coppie etero. E un soggetto troppo silente.

L’impossibilità di generare direttamente dal nostro corpo ci accomuna tutti. Lo ha detto bene Stefano Ciccone in dialogo con Federico Zappino e Cirus Rinaldi (inserto “Ciao maschi” sul n. 113 di Leggendaria, 2015): «Fare i conti con questo limite e attraversare le diverse sue elaborazioni è un esercizio ineludibile». Per riconoscere sempre meglio il proprio desiderio e quello dell’altra – o dell’altro a me in questo simile.

Non essere madre rimanda poi alla poco investigata relazione con la propria madre, oltre che con l’altra che può essere o è madre dei nostri figli. Finora – anche mediaticamente – l’essere maschio e padre, più o meno “in crisi”, resta declinato simbolicamente soprattutto in relazione al proprio padre e al figlio (e spesso si intende proprio il figlio maschio). Così si rimuove una relazione fondamentale.

Altri problemi apre l’affermazione “non sono gay”. Posso essere frainteso: “per carità, mica sono gay!”. Oppure c’è il rischio di alludere a una “comunità” che in realtà è fatta da persone diverse l’una dall’altra, e che si è data anche espressioni politiche e culturali distinte e plurali.

Parlo soprattutto dall’esperienza di due anni del gruppo romano “Maschile in gioco”, nel quale c’è un confronto con numerosi amici gay interessati come me e altri a riflettere sul proprio comune essere maschi.

Ancora prima, anni fa, altri scambi di questo tipo nella rete di Maschile plurale.

Una delle prime volte l’argomento Gpa fu affrontato da un amico gay, assai polemico sulla pratica: l’ho risentito e mi ha ricordato che in quella discussione aveva citato anche il caso di due lesbiche, una delle quali madre grazie allo sperma di un amico. Quando, diversamente dai “patti”, questo amico aveva manifestato il desiderio di avere una relazione col figlio, la reazione delle due donne era stata di rigida chiusura.

La differenza del contributo fisico alla procreazione giustifica la facile rimozione di un desiderio e di una presenza paterni?

Alcuni scambi più recenti, nel gruppo romano. Discussioni nel momento in cui c’è la polemica politica sulla legge per le unioni civili. Incontriamo una coppia di gay (fanno anche parte di un gruppo ebreo): non hanno alcuna intenzione di procreare o di prendersi cura di bambini. Sono però molto arrabbiati per l’uso strumentale che si fa dell’“utero in affitto” da parte delle destre, cattoliche e no, contro l’intera legge e contro l’ipotesi che legittimi anche le adozioni. Ne fanno una questione di dignità ferita.

L’uscita del documento di Snoq-libere, firmato anche da alcuni politici maschi, mentre si discuteva ancora della legge, mi sembrò – e mi sembra – una iniziativa strumentale.

Nel gruppo conosco superficialmente un uomo completamente preso dall’attesa che in America una donna metta al mondo la sua bambina. Non ha dubbi che si tratti di un fatto di civiltà. Ci fa conoscere la neonata, che tiene in braccio amorevolmente, poi scompare dal gruppo.

Guardarlo, ascoltarlo, mi provoca reazioni contradditorie. È bella la sua tenerezza paterna-materna. Ci vedo però anche un eccesso.

Capisco che molte donne leggano in questa figura maschile il pericolo di una appropriazione indebita della funzione materna. Che si metta in gioco un “indisponibile” nelle relazioni tra i sessi. Sono però convinto che in questa inclinazione maschile verso la piccola creatura sia leggibile anche un effetto prodotto proprio dalla rivoluzione femminile. Uno scostamento radicale dai tradizionali modelli patriarcali, verso il corpo e la cura. Qualcosa, comunque, da guardare e da interrogare.

Dell’intervista a Nichi Vendola di Letizia Paolozzi (nell’inserto “Mamma/non mamma”, sull’ultimo numero di Leggendaria) vorrei che si leggessero anche le parti in cui dice di sé che avrebbe voluto adottare, delle relazioni con le due donne che hanno reso possibile la nascita e con il figlio, e là dove afferma che il suo essere gay non lo svincola dai suoi “debiti di genere” («Il femminismo – dice – per molti di noi è stato un paradigma e un nuovo vocabolario. Lo dico senza camuffarmi da femminista e so bene che l’omosessualità non mi svincola dai debiti di genere che, in quanto maschio, ho contratto. Sono consapevole di essere maschio e so che ai maschi compete un lungo lavoro di genealogia del proprio genere per liberarsi dalle proprie coazioni al comando. Occorre un lavoro quotidiano di svuotamento della propria attitudine al potere, una sorta di auto-spossessamento di quella che è una stratificazione ideologica che agisce nel profondo e che ci fa appartenere a una etnia speciale, speciale perché addestrata a percepirsi come proprietaria privata delle donne e dei bambini»).

Direi che se si vuole discutere con i gay – con le loro associazioni, ma soprattutto con ogni singolo – bisognerebbe affermare in modo più forte che si è favorevoli all’adozione, da parte di single e di coppie. Come per tutti gli altri e altre (naturalmente si può anche essere contrari, ma in questo caso bisognerebbe motivarlo).

L’altro punto che sollevo è quello del linguaggio. Nell’epoca dei social se si confrontano due posizioni eticamente e linguisticamente chiuse (“fate una cosa abominevole” – “soffocate libertà, vita e amore”) le possibilità di uno scambio spariscono e si alimenta uno schieramento simbolicamente mortifero.

Credo di aver imparato da alcune donne, che sono qui, che “il metodo è sostanza”, e il linguaggio è la cosa più determinante. Sono poi preoccupato che il pensiero e la pratica politica della differenza sessuale possano essere viste, soprattutto da giovani persone che, forse anche non del tutto consapevolmente, ne hanno assimilato il valore radicale di libertà, ma cercano altro, come una proposta che si carica di significati normativi negativi.

Luisa ha ripetuto recentemente che la differenza è in noi, più che tra noi e altri. E mi verrebbe da dire che le vie per raggiungere un senso libero della differenza, se non sono infinite, sono comunque molteplici. Al limite sono tante quante siamo ognuno.

Da questo punto di vista conta non solo come, ma anche con chi si discute con l’obbiettivo di uno scambio. Sono del tutto d’accordo a discutere con il mondo cattolico, che sempre di più si volge al pensiero della differenza. O con quelle posizioni laiche che vedono il nesso tra differenza e una nuova idea della libertà e del limite oltre le ipoteche patriarcali.

Credo che questo scambio vada esteso al mondo che si usa riassumere nella sigla GLBTQI ecc. Riferirsi a questo mondo come a un tutto omogeneo e orientato alla neutralizzazione di segno maschile mi sembra un errore. Per certe posizioni forse è vero che uno come Mario Mieli si rivolterebbe nella tomba. Ma altre ricerche e pratiche si richiamano proprio alle sue posizioni, e alle successive elaborazioni che indagano non in modo banale sui nessi tra natura, cultura, potere, soggettivazione (un esempio: il dialogo sul “futuro del soggetto queer” tra Federico Zappino e Lorenzo Bernini in appendice al testo di Butler «La vita psichica del potere», Mimesis 2013)

Infine, non voglio sottrarmi al punto della legge. Non solo per quanto riguarda le massime che più o meno consapevolmente seguiamo nelle scelte etiche. Ma anche proprio per le norme di cui si discute. L’idea del divieto universale non mi convince. Come non mi piace una contrattualistica determinata dal mercato. Per un uomo è molto difficile, forse impossibile (sbagliato?) pronunciarsi su qualcosa che investe il corpo e la libertà femminile. Lo osserva Claudio Vedovati (nel citato volumetto “Mamma/non mamma”) riferendosi anche alla nozione di “diritto leggero”, nelle parole di Maria Grazia Giammarinaro.

Mi sono chiesto se l’asserzione formulata per l’autodeterminazione sulla procreazione e sull’aborto – a lei spetta, sul destino proprio e della propria creatura, la prima parola e l’ultima – non possa essere fatta valere anche nel caso della donna che scelga di procreare per altri e altre.