Non riproporre il già pensato
Loretta Borrelli
20 Novembre 2017
Rispondo agli spunti venuti dalla redazione di #VD3 rispetto alla rete, ai social e a come starci, decidendo di partire dal perché sono arrivata alla Libreria delle donne. Il mio arrivo non è avvenuto attraverso i social network, ma è associato al fatto che sono una donna che lavora nell’informatica.
Quando avevo 21 anni, nel 1999, ho iniziato a lavorare in questo campo per necessità dovute ai cambiamenti nell’ambito della grafica e dell’editoria.
Da subito in questo lavoro ho percepito una differenza di approccio tra me e gli altri che facevano parte di quel mondo prevalentemente maschile. Provavo un certo piacere nell’essere capace di programmare le macchine, ma all’interno di quel sistema sentivo qualcosa che mi creava inquietudine. Non riuscivo a nominare cosa fosse, ma capivo che c’era qualcosa di profondamente sbagliato.
Ho avviato una mia lotta personale nei confronti del linguaggio informatico, iniziando una ricerca disperata e molto complessa nei meandri della logica matematica e della linguistica. Studiavo molti filosofi alla ricerca di un principio di origine che mi permettesse di capire che cosa fosse sbagliato nell’impostazione dell’informatica. Ero convinta, allora, che se fossi arrivata all’origine, avrei potuto poi costruire un discorso perfettamente logico in grado di esprimere altro.
In quegli anni, nei discorsi politici relativi alla tecnologia aveva grande seguito il Manifesto cyborg di Donna Haraway. Anche nel percorso di studi che seguivo all’Accademia di Brera c’era un grande interesse verso il Manifesto. Si parlava della necessità delle donne di esserci, marcare una presenza nell’informatica, aderire nel corpo e nella carne a quel discorso che si stava avviando.
Comprendevo la necessità di confrontarsi con il panorama tecnologico, ma trovavo irritante l’eccessiva fiducia nella tecnologia e rifiutavo l’idea di essere totalmente assorbita da un pensiero che escludeva qualsiasi differenza. Il Manifesto era entusiastico nel dire “dobbiamo esserci” ma non diceva niente del mio disagio.
La fortuna volle che nel 2006 la filosofa Chiara Zamboni fosse invitata dall’Accademia a parlare del Manifesto. A lei ho raccontato la mia inquietudine nel dovere aderire a quel linguaggio i cui fondamenti non mi risultavano sensati, e il mio rifiuto del sistema logico-linguistico. Mi rispose in modo criptico: “È una questione di ordine simbolico della madre”.
Nel corso dell’incontro, mi ha fatto comprendere l’importanza della spinta politica di Haraway nel prendere parte a una cultura “alto tecnologica” come “elaborata icona per sistemi chiave di differenza simbolica e materiale nel tardo-capitalismo”.
Avevo studiato la logica matematica alla ricerca dell’origine, ma non conoscevo ancora il pensiero e la politica delle donne.
La lettura di L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro ha sbrogliato i miei dubbi. Nel primo capitolo dal titolo La difficoltà di cominciare ho trovato una frase che sintetizzava i miei tentativi di ricerca di un discorso logico: “Io comincio dal principio perché non so cominciare da dove sono e questo perché non sono da nessuna parte”.
Era esattamente la sensazione che avevo nell’ambito informatico, quella di non essere da nessuna parte, non avere parole, la sensazione che quel linguaggio totalmente logico tagliasse via una parte di fatti.
Più avanti Muraro afferma: “Accettare la necessità di fatto è logico quanto accettare quella logica. Arrivarci dà una gioia ed un riposo di gran lunga superiori a quelli che può dare la dimostrazione del teorema di Pitagora”. Fino ad allora avevo continuato a cercare la dimostrazione logica di quello che volevo dire e invece, finalmente, capivo che aveva un’autorità anche accettare la necessità dei fatti.
Da questa lettura è nato il desiderio di frequentare la Libreria delle donne e di ricercare la parola di altre donne che avessero espresso la loro opposizione alla indiscussa verità logica dell’informatica. Questo è il movente del mio arrivo in libreria: il disagio nell’informatica, il non sapere come starci.
Nel tempo ho incontrato altre donne che ne hanno parlato e scritto.
Ho ritrovato quell’opposizione in Ellen Ullman, scrittrice e informatica americana, che ha diretto sistemi di digitalizzazione per grandi centri sanitari. Nel suo libro Close to the Machine racconta come in un momento emotivamente complesso della sua esistenza, avesse deciso di smontare il suo computer e poi rimontarlo, un gesto simbolico per trovare un altro linguaggio. Nello stesso libro scrive: “Avevo ridotto le obiezioni degli utenti a un insieme di cinque modificazioni del sistema. Vorrei che la parola ridurre fosse intesa proprio nel suo senso culinario: far bollire qualcosa sino a ricavarne l’essenza. Eppure ero pienamente consapevole che la vera essenza umana era assente dalla lista che avevo preparato. Una questione del tipo ‘Come faremo a sapere se i clienti hanno la tubercolosi?’ – La paura di stare seduti in una stanzetta male areata con qualcuno che ha la TBC resistente alle medicine, la normale eppure complicata urgenze biologica di una domanda del genere – tutto questo diventava una lista di elementi da aggiungere sullo schermo o a un database”.
Ci sono donne che, lavorando nell’ambito informatico, sentono la necessità di un cambiamento nelle strutture che vengono create. Alla Libreria delle donne ho la fortuna di sperimentare quel ridurre la necessità di fatto in un progetto politico. Il gruppo nel quale elaboro in pratica questo approccio è la redazione della rivista online Aspirina.
Siamo partite prima di tutto con il chiederci che tipo di tecnologia utilizzare. Il confronto tra noi è stato importante, soprattutto perché le altre hanno compreso il mio desiderio di non tradurre il progetto in sistemi già esistenti. Questo è quello che si fa di solito nell’informatica, cioè riprodurre gli stessi sistemi logici che ripropongono il già pensato. La mia esigenza invece era quella di pensare insieme partendo da quello che volevamo.
In particolare il confronto con Elena Leoni, la grafica della rivista, è stato la base per riprogrammare un sistema editoriale informatico, non sentendoci costrette alle sue funzionalità o all’uso imposto dal mercato tecnologico.
Volevamo una rivista periodica i cui contenuti creassero un’opera corale. Siamo rimaste distanti dall’imperativo della comunicazione odierna che prevede la produzione costante e frammentaria di contenuti, come succede nei blog.
Con la rivista cerchiamo di “costruire un’unità poetico/politica” nei termini di Haraway, attraverso una pratica di affidamento reciproco.
In Aspirina abbiamo riflettuto a lungo sul rapporto con i social network.
Personalmente sono molto critica nei confronti di social come Facebook. Essere nella rete non significa essere su Facebook, questa corrispondenza non è da intendersi come necessaria. Però sono consapevole che molte persone sono ingabbiate in questo equivoco.
In redazione, aprendo la nostra pagina Facebook, ci siamo poste una serie di interrogativi sul suo uso: questo strumento che cosa comporta? come è fatto? quali sono le cose che richiede di fare? quanto tempo dedichiamo alle caratteristiche specifiche dello strumento? quanto lavoro?
In base a questo abbiamo pensato di sottrarre ore di lavoro su Facebook per dedicarle alle relazioni politiche tra noi e con altre. Non abbiamo messo a disposizione le nostre risorse per stare in quella dinamica social di continua interazione.
Ci è capitato di essere coinvolte dalle onde emotive tipiche di Facebook, per esempio nel caso “Charlie Hebdo”. La velocità della comunicazione in quei giorni ci chiamava, come rivista satirica, a una reazione immediata a cui siamo sfuggite. Abbiamo preferito dedicare tempo alla discussione in redazione e scegliere di dare una risposta corale attraverso un numero speciale della rivista.
In Aspirina convive un duplice aspetto, quello del gruppo politico e quello dell’autorialità/percorso professionale delle singole. Ci siamo chieste: che cosa ha comportato l’ascesa di Facebook nella vita di ognuna? È evidente che ha provocato un enorme cambiamento nel mercato del lavoro.
Dal confronto tra noi è emerso che quel social network ha comportato la perdita di contrattazione lavorativa ed economica. Per molte autrici quella modalità di condivisione ha un impatto molto forte sulle vite personali.
Si tratta di un sistema commerciale che vuole creare un determinato spostamento economico e finanziario. Un sistema che accumula denaro e potere, che non è prendibile perché dietro c’è un interesse e un’intenzione.
Il problema non è se usare un social o no, ma capire, nel momento in cui lo scegli, in che modo vuoi starci.
Una critica radicale ai social network prevede una conoscenza molto approfondita dell’algoritmo e delle regole di quel linguaggio. Per aprire un conflitto, bisogna obbedire a quella grammatica e pensare un altro ordine logico.
Se invece il desiderio non è quello di risignificare le interfacce e l’algoritmo, ma di usare strumentalmente i social per veicolare un messaggio politico, sento come necessario valutare i rischi e le criticità. Bisogna essere consapevoli che c’è una parola altrui che ti guida e che si è coinvolte in giochi di potere.
Introduzione all’incontro di Via Dogana 3 La Rete è nella nostra realtà. Come starci?, del 12 novembre 2017