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Perché ad alcune donne la parola “affidamento” ha fatto o fa paura? La questione è emersa nella redazione aperta di Via Dogana Tre “Fare impresa femminista”. Io sono stata una di quelle donne e posso provare a rispondere per me. 

Premetto che ormai da anni ho accolto l’affidamento, e sottoscrivo tutto quello che ne abbiamo detto nell’incontro: ha successo per chi lo pratica; rompe il patto sociale esistente fondato sulla centralità maschile e ne crea uno nuovo che dà forza e libertà a tutte le donne; una donna per diventare grande ha bisogno di un’altra donna più grande di lei e affidandosi riceve grandi vantaggi. 

Eppure da giovane ne avevo paura e ho perso anni preziosi tenendomene alla larga perché ne fraintendevo il significato. L’“affidamento” mi evocava l’affido dei minori agli adulti, lo stare sotto tutela. Lo interpretavo in un senso gerarchico a cui mi ribellavo, senza vedere che mi offriva la libertà femminile che cercavo, e gli opponevo un ideale astratto di rigida uguaglianza e di democrazia formale. 

Ho superato la mia diffidenza quando mi sono accorta che in politica facevo riferimento al pensiero di uomini e a dirigenti maschi, rischiando molto di più. Infatti, invece di affidarmi a una donna, mi consegnavo agli uomini, finendo per dipendere da loro. È andata così: ero marxista perché speravo che il comunismo avrebbe liberato le donne, nel mio partito desideravo prendere a modello delle donne, ma c’erano pochissime dirigenti e non tutte notevoli, per cui spesso pendevo dalle labbra degli uomini più brillanti. E le donne che stimavo erano garantite ai miei occhi dalla comune appartenenza e dall’importanza che avevano per i compagni. Cioè, erano “brave” perché tali le consideravano gli uomini, in un consesso maschile in cui la presenza femminile era facoltativa e non portatrice di senso. Però continuavo a essere insoddisfatta, a cercare qualcosa di più. 

Per fortuna una delle dirigenti “notevoli”, Elettra Deiana, scoprì il pensiero della differenza sessuale, proprio attraverso una pratica di affidamento con Marirì Martinengo, sua collega, con cui realizzò un progetto di pedagogia sessuata. Allora mi fidai di lei perché la sua credibilità era “garantita” dal partito: paradossalmente, un po’ come se mi fossi “affidata” al partito per affidarmi a un’altra donna. Ma ascoltandola mi si aprì un mondo e nulla fu più come prima. A partire dal partito, che perse immediatamente il suo valore di misura del mondo.

Fu come guardare un trompe-l’œil e vedere improvvisamente l’impasse dove sembrava esserci una prospettiva. Mi accorsi che riconoscere il di più di altre donne non produceva gerarchia ma indipendenza dall’approvazione maschile, e che guardare gli uomini e il mondo in relazione con altre donne, attraverso una mediazione femminile, era condizione di libertà per tutte. Allora iniziai il lungo percorso che mi ha condotta fino alla Libreria delle donne. 

Il termine “affidamento” è giusto perché descrive fedelmente la pratica. Non esiste una parola magica facile e accattivante con cui sostituirlo, perché ciò che fa problema non è il nome, ma l’imprevisto della libertà femminile e la paura di sottrarci alla misura maschile, l’unica che conosciamo. Così riconduciamo tutto a quel che la politica maschile ha già prodotto: l’autorità femminile al potere, il riconoscimento di disparità alla delega, l’affidamento alla gerarchia o alla tutela. È per lo stesso motivo che tante rivendicano ossessivamente giustizia dalle leggi e dalle istituzioni, anziché dare valore al proprio cambiamento. Laura Minguzzi dice: «L’affidamento va raccontato». Ha ragione. Ma per essere ascoltate nel racconto occorre prima aver costruito relazioni: non esistono scorciatoie.