Nomadland di Chloé Zhao – Usa 2020, 1.48’
Recensione di Silvana Ferrari
2 Maggio 2021
Nomadland, il film di Chloé Zhao, indiscusso vincitore di premi nei festival, dal Leone d’oro a Venezia ai Golden Globe, dai Bafta Film Awards inglesi fino agli Oscar, solo per citare quelli più famosi, nasce da una forte relazione di fiducia e da una stretta collaborazione fra la regista e la sua protagonista, l’attrice Frances McDormand.
All’uscita del libro Nomadland (2017) della giornalista Jessica Bruder – un’inchiesta sulla vita degli americani “nomadi” durata più di tre anni e quindicimila miglia di guida su un camper, da costa a costa, dal Messico al confine canadese – Frances McDormand comprò i diritti per la realizzazione di un film che affidò a Chloé Zhao di cui aveva apprezzato i precedenti lavori e in particolare il film The Rider (2017), storia di un giovane cowboy della tribù dei Lakota che vede infrangersi il suo sogno a causa di un incidente.
In un’intervista sul Venerdì di Repubblica del 9/4/21 Cloé Zhao così racconta: “Francis non mi ha soltanto scelto, ma mi ha aiutato con la sceneggiatura e ha coinvolto nel progetto alcuni suoi amici, come David Strathairm – unico attore professionista oltre McDormand – che interpreta un altro bastonato dalla vita”.
Fern, il personaggio-guida del film, è una sessantenne che dopo la morte del marito e la perdita del lavoro è costretta ad abbandonare la casa in cui aveva felicemente vissuto e la sua cittadina, Empire nel Nevada, come migliaia di altre vittime della grande recessione del 2008 e della crisi dei mutui subprime. Si compra un van, non certo di prima mano, che battezza “Vanguard” e arreda con le cose a lei più care e si mette sulla strada, lasciando il resto dei suoi pochi beni in un deposito.
Lavora saltuariamente percorrendo migliaia di chilometri all’anno, spostandosi da uno stato all’altro. Nel suo viaggio incontra persone come lei “nomadi”: vivono di lavori precari e si portano addosso storie dure, vite difficili che a volte sono disposte a raccontare attorno ad un fuoco, in uno dei tanti luoghi dove sostano e si scambiano notizie e oggetti creando relazioni di aiuto reciproco.
Nell’impianto del film è da sottolineare l’accurato lavoro di scrittura e di montaggio di Chloé Zhao per assimilare e armonizzare la storia di Fern, personaggio di fantasia, alle storie vere delle/i nomadi che il film vuole raccontare. Ecco Linda May che recita se stessa affiancando Fern come compagna di lavori precari. Anche lei si è ritrovata sulla strada, dopo una vita trascorsa a lavorare, con una pensione che non le permette la sopravvivenza. Oppure Swankie che insegue il suo ultimo desiderio compiendo un viaggio alla ricerca della bellezza e del contatto con una natura che sente generosa e miracolosa; oppure Bob Wells, un predicatore, per il quale il viaggio è una missione, un mettersi al servizio degli altri bisognosi come incessante ricerca di rincontro con il figlio suicida, per mantenerne viva la memoria.
Lo sguardo della regista si sofferma con frequenti primi piani su questa umanità sofferente, ma anche piena di energia, di forza e di dignità; un’umanità buttata fuori dalle crepe, dai buchi del capitalismo che in una paurosa contraddizione continua a produrre beni e creare bisogni, ma come un mostro distruttivo, è incapace di soddisfare quelli primari: una casa, il lavoro, la salute.
È un film che racconta dello smarrimento delle persone, del non sentirsi parte di un qualcosa, del non avere radici. Sentimenti che la regista stessa conosce bene e qui il racconto si fa personale, sulla propria pelle. Nata a Pechino, ha studiato a Londra e a New York, dove vive, ma preferisce i grandi orizzonti che la fotografia del film riproduce splendidamente, i grandi spazi di pianura del Sud Dakota delle comunità degli indiani Sioux, dove ha vissuto per parecchio tempo, trovando un contatto con la natura che mai prima aveva vissuto.
I paesaggi attraversati da Fern nel suo viaggio, raccontano questo bisogno, suo e delle/i nomadi. Dal Nevada alle Badlands del Sud Dakota, dal Nebraska all’Arizona fino ad arrivare all’oceano in California e giocare con le onde o abbracciare le millenarie sequoie di S. Bernardino, il viaggio diventa una necessità, un ritrovarsi, un ricongiungersi con il sé, con i pezzi della sua vita: labambina audace e determinata di un tempo, la vita vissuta felicemente con Bo e la sua perdita. Un ritornare al proprio passato per poi definitivamente lasciarlo andare per buttarsi nel presente, in
quella vita nomade che ormai è la sua.
Un’indimenticabile ritratto di donna in cammino per necessità ma non solo. Voglia di libertà, di orizzonti più ampi, senza confini né limiti, fuori dai disastri della società dei consumi, dell’apparenza e dei falsi bisogni.
Come i suoi paesaggi aridi e pietrosi il film si mostra essenziale nei dialoghi, scarni, e forte nelle emozioni poco raccontate: uno sguardo, un gesto, un atteggiamento bastano.
Tutto questo la regista me lo ha trasmesso intensamente insieme al rispetto e all’empatia per quel mondo e i suoi personaggi.