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Da Il Quotidiano del Sud – Due anni fa il 16 settembre moriva la giovane curdo iraniana Masha Amini, studentessa ventiduenne arrestata e pestata brutalmente dalla “polizia morale” per aver indossato il velo in modo improprio. Seguì la “rivolta” delle donne iraniane al grido “Donna, Vita, Libertà”, a cui si unirono anche uomini. Allora Maysoon Majidi, la regista curda iraniana e attivista per i diritti umani, in particolare delle donne, detenuta da nove mesi nelle carceri calabresi con l’accusa di essere una scafista, era nel Kurdistan iracheno, dove – come ha scritto in una lettera dal carcere – era fuggita col fratello dopo aver ricevuto minacce da parte del regime iraniano. In Iraq, dove aveva lavorato in televisione oltre che come reporter e giornalista indipendente, prese parte alla “rivoluzione” organizzando «la prima performance davanti alla sede delle Nazioni unite» e aprendo «il canale “Ack news” per pubblicare notizie in tempo reale». Due giorni dopo quell’anniversario al tribunale di Crotone si è svolta la terza udienza del processo a suo carico e questa volta non è stata lasciata sola, fuori e dentro il Tribunale. A scuotere le coscienze hanno contribuito certamente la sua lettera dal carcere e un appello che il padre, Ismael, vecchio e ammalato, ha rivolto dall’Iran «a tutte le associazioni e organizzazioni che si impegnano nella difesa dei diritti delle persone perché si occupino del caso» della figlia e ha chiesto giustizia perché «le accuse sono prive di fondamento». «Questa è la mia voce! Mi chiamo Maysoon Majidi – si legge nella lettera –, sono nata il 29 luglio 1996. Sono laureata in teatro e ho un diploma magistrale, sono attivista politica e membra dell’organizzazione dei diritti umani “Hana”, partecipo al coordinamento dei Curdi in diaspora, sono attivista dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse. Quanto ai diritti dei rifugiati, ho sempre partecipato alle varie attività come organizzare le manifestazioni dell’Onu in Erbil (Iran) dopo la morte di Behzad Mahmoudi, rifugiato politico. Ho partecipato alle lotte del popolo curdo per sette anni.» Poi, la fuga con il fratello e l’arrivo, dopo tante peripezie, in Turchia, le violenze subite, la partenza e la traversata che, ancora una volta, ha raccontato nei particolari in Tribunale, per dimostrare la sua innocenza. «Fin da piccola – ha scritto il padre – Mayson ha dimostrato capacità artistiche, si è espressa con le matite colorate ancor prima di andare a scuola, sempre incoraggiata da noi di famiglia. Nella classe che corrisponde alla quarta elementare ha cominciato a scrivere poesie, alla scuola media è diventata redattrice della rivista della scuola e nell’ultimo anno ha vinto il premio tra gli studenti narratori in Iran. Appassionata d’arte, si è iscritta all’Università per studiare teatro e regia teatrale» e quando si è «impegnata in politica e nell’attivismo per la difesa dei diritti umani» ha subito «interventi pesanti da parte delle guardie dell’Università, che l’hanno picchiata e torturata molte volte.» Come avrebbero mai potuto immaginare padre e figlia che quello che doveva essere il viaggio verso la libertà si sarebbe trasformato in un “incubo” e in un’accusa “assurda” di “scafista”? Accusa da cui nel tribunale di Crotone si sta difendendo anche un’altra donna iraniana, Marjam Jamali, fuggita dal regime con il figlio di otto anni. È stata accusata da due uomini, che durante la traversata hanno tentato di molestarla. Dopo sette mesi di carcere, vive a Roccella Jonica ai domiciliari insieme al figlio, cosa che è stata negata per tre volte a Maysoon, separata dal fratello. Mi auguro che alla fine a queste due “Donne” sarà resa giustizia, restituendo loro “Vita” e “Libertà”.