Nel tempo della libertà femminile
Laura Minguzzi
23 Settembre 2024
Mi interessa riprendere una riflessione di Elisabetta Cibelli sul valore politico della mediazione e sulle conseguenze nefaste della sua mancanza. Vorrei evidenziare le differenze fra le pratiche in atto nel presente. Per quanto mi riguarda la mia preferenza va alla creazione di contesti. Lo scambio in presenza permette di alimentare la fiducia, l’ascolto, mentre viceversa sui social network si incrementano le polarizzazioni, la diffidenza, la rigidità schierata. In questo mondo di identità fittizie e di luoghi fittizi, il mondo reale disturba, è perturbante. Si riproducono fantasmi che si potenziano con grande sfoggio di pubblicità mediatica, come è accaduto nel recente G7 a guida italiana che si è svolto nel nuovo villaggio finto-antico di Borgo Egnazia, non a caso uno scenario artificiale che ben si accorda agli attuali tempi mediatici.
La mediazione è un fine lavoro, una messa al mondo di una parola incarnata e sessuata, un processo generativo. Partecipare alla pubblicazione del libricino Vietato a sinistra su temi controversi nel dibattito femminista, mi ha permesso di riflettere sugli effetti positivi di una pratica in contesto. Il fatto che si sia giocata la fiducia, l’affidarsi a un’altra, il credere possibile, ecco, tale postura ha dato luogo a un circolo virtuoso, alla generazione di altri contesti, di un movimento di scambio fra differenti posizioni su alcuni nodi che scottano, quelli affrontati nel libricino. In presenza di mediazioni e di riconoscimento di autorità, in alcuni incontri abbiamo finito per dialogare a volte anche con quelle o quelli che avevano tentato di far annullare le presentazioni del libro.
Il femminismo è sempre stato un campo di battaglia di idee e pratiche. In questo momento è particolarmente impegnativo esporsi in luoghi pubblici o tessere mediazioni con chi ricorre a strumenti virtualmente offensivi per manifestare il disaccordo. Lo sfondo che può giustificare queste modalità è che tutto ciò accade in un teatro di guerra e di azzeramento quasi totale della parola in favore delle armi. Si scambiano missili invece che parole! Ma le donne hanno sempre parlato. La guerra non è mai riuscita a farci tacere. Più che mai oggi possiamo dire che la libertà femminile è la novità storica, non la guerra. Le guerre ci sono sempre state.
Alla mia nascita, nel dopoguerra, mia madre Eva esclamò: «Una femmina, quanto dovrà soffrire!», mi ha raccontato Drusilla, la levatrice. Invece è stata una «indicibile fortuna», «non è da tutti», ha scritto Luisa Muraro1. Dopo un po’ di anni di femminismo, guidata dalla mia passione per la lingua e la storia, nel corso delle mie ricerche ho trovato in una vecchia busta una cartolina postale di mia madre sedicenne. Il destinatario era un corteggiatore (mio padre) cui lei comunicava che non se la sentiva di accettare le sue proposte di fidanzamento perché troppo giovane e poi soprattutto amava la sua libertà. Mi sono commossa e ho provato un moto di orgoglio. Erano gli anni trenta del secolo scorso. Un germoglio di fierezza e di indipendenza che lei mi ha trasmesso nonostante l’asprezza della sua condizione e del momento storico.
Negli ultimi anni ho provato un sentimento di gioia in nome della libertà femminile quando sembrava avviato con successo un percorso europeo di buone relazioni con l’Ucraina. Marina Santini nella sua introduzione ne parla. Mi sembrava un effetto positivo della contaminazione fra le donne italiane e le migranti ucraine che venivano in Italia per lavorare. Ricordo che all’inizio del terzo millennio si dibatteva pubblicamente, anche con grandi manifestazioni di piazza a Kiev, di un possibile ingresso in Europa del paese, diventato indipendente nel 1991. La famosa rivoluzione arancione, che ho seguito con le amiche femministe di Karkhov e di Kiev, e che in Italia riscosse tanta visibilità e suscitò tante aspettative. Un movimento promettente fino all’insorgenza di una crisi identitaria. Finì quando il governo dell’epoca pose la questione della lingua e approvò una legge che proibiva l’uso della lingua madre nei territori orientali del paese. Una politica linguistica territoriale di dominio come barriera difensiva/aggressiva, simile a un muro simbolico. Un’espropriazione del linguaggio, che imponeva con la forza la funzione istituzionale della lingua a scapito della funzione comunicativa. Uno snaturamento della creatività della lingua materna, che ha accompagnato l’avviarsi alla guerra in corso. Un processo di identificazione della lingua con un territorio. Un uso strumentale che la sostituisce a un territorio o viceversa un territorio che sostituisce una lingua cancellandone la natura simbolica, che è aperta, non selettiva, che non conosce confini territoriali. È a questo punto che la mediazione diventa performance, linguaggio performante, parola truccata che alimenta l’astrazione dai corpi, i fantasmi e i conflitti armati.
Ho trovato molto vicina alla mia esperienza la testimonianza di una giornalista del Guardian, Viv Groskop, che trent’anni fa ha trascorso un anno nell’ex-Unione Sovietica e in Ucraina. In un articolo del 16 giugno scorso2 racconta che, sebbene l’Ucraina fosse indipendente da tre anni, le affermazioni di identità nazionale restavano perlopiù sottotraccia, tranne che per il cibo e le bevande, diventate dopo il 1989 una questione di identità.
«[…] A quel tempo qualsiasi animosità fra i due popoli sembrava essere oscurata e i disaccordi minimizzati. […] C’era un senso di ottimismo, nonostante la “terapia d’urto” per l’economia.
[…] Ero in tournée con la band punk-rock del mio ragazzo, nell’estate del ’94. […] Quell’anno ho imparato a cucinare piatti russi e ucraini, un miscuglio delle ricette preferite dalle cuoche casalinghe di molte ex-repubbliche sovietiche. […] Alcune erano elaborate ricette tramandate in famiglia. […] Insegnavo inglese a studenti adulte e molte delle mie insegnanti ufficiose di cucina furono loro. […] La prima a invitarmi nella sua cucina è stata Oksana, una donna uzbeka [che] voleva mostrarmi la ricetta dei mànty, ravioli, di sua madre. […] Conoscere i mànty e come mangiarli (si morde la parte superiore e si succhia il sugo) mi è stato molto utile a Odessa. […] Tutto questo, ovviamente, prima che il cibo diventasse politico come tutto il resto. In Ucraina la madre del mio ragazzo mi ha insegnato a cucinare i syrniki(pancake) con tvoròg (formaggio fresco) parlandomi in un mix di russo e ucraino, una lingua chiamata sùrzhyk, il nome del pane misto segale. Non ho mai incontrato nessuno che facesse una grande differenza fra il parlare russo o ucraino, a quei tempi: si parlava semplicemente come si parlava. […]».
Per me la caduta del muro di Berlino rappresentò la fine del patriarcato, l’avvento della libertà femminile (e non solo), e così fu anche per le donne oltre la cortina di ferro: il regime per loro aveva perso credito. Furono dieci anni quelli della perestrojka, dal 1991 fino al 2001 con l’elezione di Putin, di fioritura e di sperimentazioni in tutti i campi, nuove riviste nascevano, nuovi giornali indipendenti, nuove TV, traduzioni in russo di tanta letteratura femminile e femminista con pubblicazione di tante scrittrici e scrittori russi prima censurati, mostre d’arte contemporanea di artiste non più ispirate al realismo socialista. Ricordo una raccolta di racconti russi dal titolo Cosa vuole una donna, che io comprai per tradurla in classe con le mie allieve e allievi. Un’esplosione di apertura e di rivisitazione della memoria grazie all’apertura degli archivi. Grandi dibattiti pubblici e sui giornali. Un’abbuffata di “democrazia”, di libertà con le donne protagoniste. Sempre nel 1993 contattai una Biblioteca delle donne, a Mosca, e conobbi due insegnanti che avevano aperto una libreria e una casa editrice, La nuova scuola, per scrivere e diffondere nuovi manuali, ispirati a una pedagogia non monolitica. Furono messe in scena le ragioni di tutti. In quel periodo così fertile io potei finalmente realizzare scambi residenziali con le mie classi dei licei di Milano e le classi di due licei di Pietroburgo. Le amicizie nate fra le scuole milanesi e russe sono state appassionanti, ispirate dal senso di libertà che le motivava oltre che dal desiderio di capire e dal piacere di conoscere una realtà e una storia differente dalla mia, dalla nostra, tutto grazie all’amore per la lingua.