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Prendo le mosse dall’invito di Lia Cigarini: riflettere a partire dall’immigrazione, dall’ipotesi che l’Africa continuerà a premere sull’Europa, dalla paura di uno che teme di perdere i vantaggi che ha guadagnato con il suo lavoro e le sue lotte, a causa degli immigrati. Il nostro, che abbiamo chiamato Simplicio – v. Luisa Muraro in Contributi del 18/3/2018 – forse ha paura perché quei vantaggi, gradualmente e da decenni, li ha parzialmente persi quanto a sé, e li vede ormai quasi del tutto vanificati per i suoi figli cui pensava di averli garantiti.

La presenza degli immigrati che – più nella fantasia che nella realtà – sottraggono casa e lavoro, può essere un’occasione per fare i conti con l’illusione che il lavoro salariato, e più, il lavoro remunerato tout court, sia la via maestra per garantire i bisogni fondamentali degli esseri umani. È questa, io credo, una delle verità che bisogna dire e continuare a elaborare nel mondo occidentale.

Si tratta di dire al Simplicio del nord che, almeno in Italia, e indipendentemente dagli immigrati, con tutta evidenza nei prossimi anni, non vi sarà abbastanza lavoro qualificato per tutti i suoi figli, come sperava, ed al Simplicio del sud, che già ha vissuto arrangiandosi, disoccupato con lavori saltuari, che non vi sarà lavoro, nemmeno poco qualificato, per tutti i suoi figli. Ma lui già lo sa, e infatti ha votato di conseguenza. Ha votato per chi – con il cosiddetto reddito di cittadinanza, ennesima illusione, legato com’è alla ricerca/promessa di un lavoro che non arriverà – è stato tuttavia capace di avvicinarsi al cuore della sua paura e della sua miseria. Per sorvolare sulla constatazione che per moltissimi il reddito da lavoro non riesce quasi a garantire la sussistenza.

Propongo, allora, che diamo fondo a tutto il sapere che ci viene dalla nostra esperienza di donne, per affrontare questo tema in maniera radicale, perché a me pare il nucleo della sofferenza nel nostro paese che si esprime, fra l’altro, come rabbia e rifiuto degli immigrati – tralasciando per un momento la massima e più importante reazione a questa sottaciuta consapevolezza, che è quella delle donne che, anche per questo, credo, hanno quasi smesso di fare figli.

Non si tratta di scomodare teorie che spieghino se e perché il modello economico che conosciamo possa perpetuarsi solo se rimangono e si allargano precariato, povertà, guerra e mille altre miserie.

Se anche così non fosse, è evidente che l’immenso numero di umani che ormai premono, sulla terra, sulle rive dei mari, alle frontiere, in tutte le parti del mondo, non potrà procurarsi un reddito attraverso il lavoro. E non vi è alcuna speranza di remunerazione per il lavoro di cura e manutenzione, senza che, e prima che, ancora e sempre, non siano manipolati, consumati, terra, acqua, aria, esseri viventi dai quali dipendiamo, distrutti per il profitto in quantità maggiore di quel che vogliamo curare, di quel che vogliamo manutenere. Mi pare sia già ampia la riflessione al riguardo.

Il lavoro remunerato per tutti non solo non è una soluzione possibile, ma è auspicabile non sia più il centro dell’attenzione, delle rivendicazioni, del desiderio, di coloro che non lo hanno. Con questo non intendo affatto dire che non occorra presidiare, con pensiero, pratiche, riflessioni il mondo del lavoro, del moltissimo lavoro remunerato che permette di nutrirci, scaldarci, curarci e di godere di molto, di tantissimo altro. E che, ci dicono, produce già quanto basterebbe a sfamare tutta l’umanità.

Si tratta di dare il via alla festa della fine del lavoro salariato e remunerato, come unica prospettiva di benessere e fondamento dei legami sociali. Dobbiamo, dove si è ancora in tempo, appoggiare e sperare che vinca chi si batte per la tenuta delle produzioni locali ecologiche, e lavorare noi, nella nostra società, per immaginare e inventare nuove forme di appropriazione dei beni necessari per vivere, per chi non li ha, e nuove forme di vita per chi un lavoro remunerato non ce l’ha. Si tratta di dare visibilità, significatività a vite possibili, vissute ora come pena e degrado, riscattate e riscattabili quasi solo con la criminalità.

Penso che dobbiamo cominciare a intendere il lavoro remunerato come uno dei privilegi possibili e l’essere liberi dalla disciplina, dai vincoli del lavoro socialmente determinato, pure un privilegio. Dobbiamo inventare scambi e attività possibili, per degne e invidiabili forme di vita, libere dal lavoro remunerato. E dobbiamo pensare a forme diverse di appropriazione di ricchezza da parte di chi ne ha bisogno, perché, ben si vede, il puro meccanismo economico non riesce a garantire forme adeguate di redistribuzione. Sappiamo a chi e come chiedere questa ricchezza?

Se la partita con il moderno non è chiusa (Muraro), possiamo pensare di aprire e allargare brecce in cui far passare altro?

Sappiamo ripensare la questua, in forme aggiornate e adeguate alla nostra realtà?

Si può rievocare, come e in quali ambiti, la doverosa responsabilità dei ricchi nei riguardi dei poveri o dei molto meno ricchi o fortunati?

Possiamo sollecitare una rispettosa accettazione e sovvenzione di attività di meditazione che impegnino un’intera vita? Di meditazione, concentrazione, immersione in/su che cosa? Non so, anche su un pallone, perché, come dice il sant’uomo, chi sono io per giudicare che non si possa spendere felicemente un’intera vita giocando a pallone, o suonando uno strumento, o recitando, senza volere per questo conquistarsi un posto di calciatore, di concertista o di attore professionista?

Può una donna immigrata passare di casa popolare in casa popolare, aiutando anziane donne italiane ad accudire malmessi mariti, o rimanere al loro fianco nelle difficoltà della vecchiaia, in cambio di vitto, alloggio e ricevendo il dono di una lingua sconosciuta? Si potrà? O in nome dei diritti sindacali si individuerà nell’alleanza tra le due una bella forma di sfruttamento e lavoro nero?

Si potrà smettere l’orribile cantilena di giovani che né studiano, né lavorano (versione più asettica di bamboccioni sdraiati) e cominciare a elencare le mille possibilità che hanno di utilizzare felicemente il loro tempo, e con questo indirizzare non altrove, ma altrimenti la bella gioventù?

Esperienze di donne lontane nei secoli, possono soccorrerci in questo momento?

Anche solo pensare a società molto più povere della nostra e ben più della nostra in balia di disgrazie sconosciute, eppure capaci di concepire che le più alte e rispettate forme di vita fossero dedicate a Dio e per questo onorate e finanziate, può ancora insegnarci qualche cosa?

E il ruolo eminente che le donne vi hanno giocato può aiutarci?

Si tratta di sottrarre riconoscimento, negare autorità ai diktat del capitalismo che del resto provvede ampiamente a smentire le sue promesse – vedi il commento di Muraro alla storia dei due giovani morti nell’incendio della torre di appartamenti a Londra. Tremo all’idea che lo facciano dei giovanotti più o meno colti che giocano da apprendisti stregoni con meccanismi più grandi di loro che possono travolgerci tutti. Occorre, invece, che lo facciamo noi, come ci ha insegnato la politica delle donne, assieme e ciascuna a suo proprio nome, per muoversi altrimenti, al di sopra del mostruoso meccanismo economico.

È questo anche il solo modo che vedo di dare forza al lavoro dipendente, che può ritrovare una qualche capacità contrattuale – che in anni non lontani si è pensato illusoriamente potesse solo incrementarsi – grazie a coloro che non corrono sempre, comunque e dovunque alla ricerca di lavoro, ma restano e pensano, lì dove sono, al più utile e felice utilizzo del loro tempo.

Ma come posso parlare io che ho lasciato a poco più di vent’anni il luogo in cui sono nata, perché mi pareva che tutto fosse perduto. Mi sono spostata di mille chilometri e ancora non so se devo rimpiangere di non averne fatti altri mille verso il nord, dieci anni dopo, o di non avere attraversato un oceano, come pure avevo ipotizzato come il meglio per me. Se mi avessero offerto, in cambio di una prestazione socialmente utile, sussistenza e tempo libero, avrei potuto scegliere di rimanere lì, da dove sono partita, quietamente a leggere, a scrivere, a imparare musica.

Forse Simplicio soffre anche di quest’altra pena, della grande fatica del lavoro, sempre più taciuta. Intento com’è a rivendicarlo come unica forma di bene per sé, non può dire quanto gli costa.

Per questo non può tollerare neanche minime forme di assistenza alle vite più fragili, perché se lui ha tanto sofferto per procacciarsi il necessario o anche il di più, perché ad altri qualche cosa viene data gratuitamente?

A me pare che ogni giorno abbiamo testimonianze di una grande sofferenza fisica, mentale e psichica, diffusa anche nel mondo del lavoro molto qualificato.

Interessanti al riguardo, al di là del valore artistico, due film, Il maestro di violino di Sérgio Machado (2015) e La mélodie di Rachid Hami (2017). Ripetono una storia già raccontata, quella di un insegnante, un intellettuale, tra ragazzi di periferia e del suo impegno per indicare ai giovani vie d’uscita possibili, un utilizzo sensato del loro tempo di vita. Ma c’è una variante che sopravanza il copione noto. È messa in primo piano la storia del maestro, dell’artista. È sua la prima mossa, è lui che decide di sottrarre la sua vita al tempo sempre uguale, competitivo e comunque asfissiante del suo mondo, e quasi la getta quella sua vita, malvolentieri, nel gran tempo disponibile di quei giovani. Ed è lì che si ritrova, è con loro che riconquista serenità ed equilibrio. Quel mondo di periferia degradata, banlieu o favela, gli si apre e lo accoglie, con questo facendo fare una capriola al senso che di questi tempi attribuiamo al concetto di accoglienza. Analogamente, nel bel romanzo Tempi del verbo andare di Jenny Erpenbeck (2015), sono i migranti, in verità, ad accogliere nel loro mondo il docente universitario in pensione che li ospita senza risparmio nel suo appartamento, ma che solo nella relazione che intreccia con loro sembra ritrovare un senso ed un fondamento alla propria vita.

Gli uomini si sono molto dedicati a pensare alla fatica del lavoro. Intellettuali, artisti, hanno ipotizzato, immaginato, vite del tutto o sempre più liberate dal lavoro.

Aspettano noi perché si cominci a dare realtà al loro mondo utopico, liberato dal lavoro a fini di lucro? Forse sì.

Di sicuro ci aspetta mia madre che, con un’audacia che oggi mi pare avere dell’incredibile, raccontava, il volto e il sorriso un po’ estatico ogni volta che ripeteva il racconto, di come a vent’anni aveva chiesto alle suore del convento in cui era stata educata, previa donazione di cospicua dote, di poter rimanere lì, a suonare il pianoforte, solo questo, per il resto della vita. Troppo comodo, le rispondevano, non è questa la vocazione. Certo dobbiamo risalire una bella china. Se quella non era una vocazione, che cosa lo è? Neanche voglio pensare all’incomparabile risparmio energetico e al piccolo ma certo contributo al contenimento demografico che quella felice soluzione avrebbe comportato, al primo posto nella mia mente e nel mio cuore essendovi il rammarico per la vocazione disconosciuta di mia madre.

E inoltre, dove è detto, definitivamente, che quel che chiamiamo la ritrosia delle donne a esporsi, non sia un tesoro per l’umanità, e specialmente ora, nelle società opulente, purché la si riconosca, oltre che come limite in tante circostanze, anche come una risorsa e le si dia dignità. E non sappiamo, forse, quanto e come pratichiamo l’eremitaggio, l’ascesi, nelle nostre case? Possono risultare utili a tutti, certi disvelamenti?  

Per tornare ai migranti: propongo che si chieda loro di collaborare per portare sollievo alle fasce più povere della popolazione di questo paese o per porre rimedio ai problemi che più le assillano. Loro certamente sono poveri, ma fra di noi vi sono moltissimi poveri e poverissimi. Che ci diano una mano a rimediare alla nostra povertà.

Proporrei di pensare concretamente questo ribaltamento.

Tanti ne hanno parlato. Che sia venuto il momento di chiederlo con forza, magari a un potente della terra, ad uno o più grandi ricchi? O la solita illusione di migliaia di posti di lavoro al di là da venire, impedirà di vedere che investimenti limitati possono mettere in moto un aumento di benessere per tutti, e forse di felicità.