Maura Delpero su “Vermiglio”: un ritratto dell’Italia patriarcale candidato agli Oscar 2024
Lara De Lena
26 Settembre 2024
Da l’Unità – Il suo discorso a Venezia in occasione del premio assegnatole dalla giuria presieduta da Isabelle Huppert, ha – come afferma Maura stessa – toccato un nervo scoperto: il silenzio sociale nei confronti di temi come la complessità della maternità al di fuori della sua narrazione più convenzionale e l’ancestrale e ormai inaccettabile difficoltà della sua conciliazione con il lavoro. «Mi auguro che la società – ha dichiarato la regista Maura Delpero nel ritirare il Leone d’Argento – dato che si riproduce attraverso i nostri corpi, inizi a sentire questo problema come suo e non lasci sole le donne».
La piccola e insieme maestosa storia corale di Vermiglio si svolge nel 1944 in un piccolo paese incastonato nella Val di Sole, una terra di confine che accompagna e abbraccia le vicende dei protagonisti diventando paesaggio interiore, bianco e siderale in momenti drammatici e verde e assolato in momenti più teneri. Le vicende si snodano con un rispetto filologico della lingua e del momento storico, ma proprio questa collocazione così puntuale in un tempo e in un luogo specifico diventa funzionale al racconto di una vicenda che può tranquillamente collocarsi al qui e ora. È proprio questa la ragione che ha spinto il Comitato di Selezione per il film italiano a sceglierlo per la 97ª edizione degli Academy Awards per concorrere nella categoria International Feature Film Award, «Per la sua capacità di raccontare l’Italia rurale del passato, i cui sentimenti e temi vengono resi universali e attuali».
Il tuo percorso di formazione parte dalla città di Bologna, credi che sia stato importante per la tua crescita artistica?
Assolutamente sì. Bologna mi ha fatto conoscere il cinema. Ho studiato Lettere all’università, guardando film in Cineteca, dove ho scoperto la storia del cinema e la cinematografia contemporanea attraverso le rassegne che passavano di lì, occasioni che mi hanno aperto al mondo. A Bologna ho passato gli anni della mia formazione e sono diventata un’adulta, la mia formazione ideologica è partita da lì. Io non credo che il cinema sia un’arte giovane, è un’arte per adulti, per aver qualcosa da raccontare devi aver vissuto e io lì ho vissuto tante cose, sono certa che quello che porto adesso nel cinema è frutto di quello che sono diventata attraverso questa città.
Quanto è stata influente la collaborazione con una compagnia teatrale per la tua formazione, se lo è stata?
Difficilmente avrei fatto un lavoro su un altro spettacolo. Quello spettacolo nello specifico era molto cinematografico. Ho sentito che quello spettacolo potesse avere uno sguardo in più che non fosse solo di servizio o ancillare, ma che potesse in qualche modo risignificarlo. Mi piaceva stare in teatro, guardare gli attori tirare su lo spettacolo, è stata un’esperienza a tutto tondo.
Il tuo discorso di ringraziamento per il Gran Premio della Giuria ricevuto a Venezia ha avuto grande eco. Ci vuoi dire qualcosa su questo?
La quantità di messaggi che ho ricevuto dopo quel discorso non mi ha stupita ma mi ha fatto pensare, in fin dei conti è stato un discorso semplice e, nel mio caso, assolutamente sentito perché sono stata io stessa una giovane mamma che girava il suo film con enormi difficoltà. La sensazione che hai quando fai questo mestiere – e non è solo una sensazione, perché a volte te lo senti proprio dire – è che te la sei cercata. Ai miei colleghi maschi questo non è mai stato detto. I registi che fanno film con bambini piccoli sono tanti, ma rimane una questione che non tocca nessuno. Il riverbero che ha avuto questa semplice frase mi ha fatto capire di aver toccato un nervo scoperto. C’è troppo silenzio attorno a questo tema, si lascia che le donne si mettano sulle spalle il peso di questa scelta come fosse un capriccio personale mentre è una questione che riguarda tutti.
Pensa che la società di oggi si stia definitivamente smarcando dal retaggio culturale patriarcale o la strada per la parità è ancora lunga?
Il tema della maternità complessa che tratto in Vermiglio affonda le radici nella mia infanzia, ma è anche un modo concentrato di raccontare nel complesso le questioni legate alla maternità in generale, soprattutto all’interno di una società patriarcale che certo sta cambiando, ma che ancora non ha fatto il passo decisivo. Io mi ritrovo a parlarne in maniera più diretta e subliminale per una questione legata al mio inconscio e alla mia infanzia, ma sono anche contenta dal punto di vista politico di mettere queste questioni al centro dei miei film. È una cosa buffa quella che è successa nei secoli, questa programmatica esclusione di un genere rispetto a un altro. Tutti noi lo abbiamo normalizzato perché siamo nati in un mondo così; tuttavia, io faccio sempre l’esercizio di raccontarmi le questioni come se dovessi rispondere a un bambino che mi fa una domanda, e raccontare la questione di genere a un bambino non può che generare la domanda: «Ma perché?».
A proposito di bambini, come è stato per lei lavorare con attori così piccoli?
Innanzitutto, credo che loro siano preziosi. Il loro sguardo, soprattutto in un racconto duro come quello del film, è uno sguardo che dà futuro e, insieme, leggerezza. I bambini riescono a dire le cose in maniera irriverente e dolce insieme, dicono le cose che noi adulti pensiamo ma non ci permettiamo di dire. Mi è piaciuto, soprattutto in Vermiglio, avere questa sorta di coro greco che commenta di notte i grandi avvenimenti come le micro-questioni della famiglia, avere i loro sguardi sussurrati delle cose che non si possono dire, vivere il processo di rielaborazione nelle loro giovani menti di quello che accade in casa. A loro quando giri non puoi dire tutto, alcuni sono troppo piccoli per storie così dure. Questo porta a volte a creare storie nelle storie pensando a quello a cui anche nella vita reale avrebbero accesso: quando io da bambina entravo in cucina le voci degli adulti si abbassavano e io raccoglievo frammenti. E li mettevo assieme e ora li racconto.