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Da Letterate.Magazine – In “Donne che allattano cuccioli di lupo” la filosofa femminista Adriana Cavarero smonta la dimensione del materno come trappola per le donne e destino biologico per descriverla invece come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza, oltre ogni copione patriarcale

Mai saggio è stato così congruente con i nostri tempi. Donne che allattano cuccioli di lupo è l’ultima fatica di Adriana Cavarero. Con emozione l’ho ascoltata qualche tempo fa a Napoli, a Palazzo Serra di Cassano, già Istituto degli Studi Filosofici, dove nel 1985 nacque il movimento femminista della differenza sessuale a opera sua e di altre militanti. L’incontro è stato organizzato da Stefania Tarantino, con la partecipazione del gruppo di Studi femministi e di Giovanna Borrello.

L’immagine in copertina e il titolo forniscono un indizio importante sull’impostazione filosofica del testo. Il dipinto di Eugène Grasset di tre donne che volano tra gli alberi, con tre lupi accanto, riprende Le baccanti di Euripide, in cui alcune donne, ubriache di gioia e di libertà, allattano cerbiatti e cuccioli di lupo, trasformate dalla forza dionisiaca della maternità, che fa cadere la distinzione tra umano e animale: ed è proprio questa esuberanza nutritiva del materno che viene discussa, esperita e elaborata oltre gli stereotipi di genere.

Da sempre, l’esperienza della maternità ha avuto un’interpretazione retorica, colonizzata e gestita dall’ideologia maschilista cristiano-cattolica dei vertici ecclesiastici. La dimensione femminile della maternità è stata propagandata e vissuta come dimenticanza di sé, sacrificio oblativo, esaltazione del dono della vita all’interno della famiglia patriarcale. Attraverso la letteratura, Adriana Cavarero recupera le ombre di un’esperienza complessa, dove è urgente e necessario individuare ogni verità fino al fondo più buio, affrontando anche gli aspetti repulsivi e attrattivi. Scrittrici come Elena Ferrante, Clarice Lispector e Annie Ernaux hanno esplorato con una lingua dura e viscerale il tremendo del materno, quella vertigine interiore e incarnata nel corpo che viene lacerato nel parto, trasformato nella gravidanza, traumatizzato dal dolore delle doglie, scosso dal contatto fisico con il rischio di morte e con il mistero della vita. Il corpo gravido è l’esperienza della materia pulsante che vibra in ogni sua fibra, attua il processo della vita nel suo qui e ora, superando l’astrattezza algida della tradizione filosofica maschile, che si allontana dai corpi ed enfatizza puramente l’elucubrazione del mentale.

Ogni aspetto oscuro del materno simbolico, scrive Cavarero «viene indagato dalle scrittrici, cercando le parole per narrare quella frantumazione incarnata, che permette all’una di diventare due, oltre ogni retorica tradizionale idilliaca e luminosa». Ogni donna ha in sé la potenza della procreazione, rende possibile la rigenerazione della vita ma viene costretta a pagare per questo un prezzo feroce, nella struttura patriarcale passata e presente: mutilare il proprio progetto di vita, non sentire la fame di mondo. Eppure c’è da riascoltare l’intreccio assolutamente femminile tra parto e physis, che permette alle donne di «sentire con il proprio corpo il legame con la natura, con zoé». Scrive ancora Cavarero: «il processo generativo della materia pulsa nel corpo materno, nel profondo della carne e della psiche». Non c’è separazione ma unione sinergica tra mente e corpo. Siamo tutti vivi perché una donna ci ha partorito. Questo dato è incontrovertibile e Cavarero riprende le parole di Hannah Arendt: «Nessuno e nessuna di noi sarebbe al mondo, sarebbe apparso nel mondo se un corpo di donna, complice del ciclo naturale della generazione, ovvero della necessità della vita organica, non si fosse strappato per generarci».

Ma la società patriarcale e tecnologizzata ha “funzionalizzato” il naturale linguaggio creativo legato al materno. È un’espropriazione del corpo femminile che va invece riconsegnato alle donne. La psicanalisi freudiana ha, a sua volta, schiacciato l’eros femminile sull’invidia del pene senza saper elaborare l’invidia e la gelosia dei maschi della potenza del corpo femminile che dà la vita. Leggendo le belle pagine di Cavarero, viene in mente Donne che corrono coi lupi, il libro della psicanalista femminista Clarissa Pinkola Estés che vuole recuperare la donna selvaggia, libera di vivere con estrema naturalità il suo corpo e di gestire la sua sessualità in modo totale.

Dice Elena Ferrante: scrivere veramente è parlare dal profondo del grembo materno. Attraverso il pungolo incandescente delle scrittrici, Cavarero invita a una riflessione ontologica sul tema dell’origine come orizzonte materiale e carnale del bíos, o meglio della zoé, senza sentimentalismi e senza tecnologismi. La maternità si pone come una esperienza iniziatica di pura animalità, una fonte di conoscenza della vita e della morte, esperienza di un corpo preso nel ciclo violento della riproduzione. La materialità corporea della gravidanza e del parto ci permettono di vivere la complicità con una natura che stringe il corpo gravido in una morsa necessaria, vitale e inevitabile, oltre ogni indulgenza autoconsolatoria. La letteratura che Adriana Cavarero cita è alleata di questa narrazione cruda e violenta, che offre le parole giuste e non retoriche a questo nuovo percorso zoo-ontologico. Le autrici non parlano di obbligo delle donne a diventare madri, non parlano del desiderio della maternità ma narrano semplicemente questa esperienza come materia di conoscenza.

Nella nostra società, la famiglia monogamica si è basata sulla divisione della cura per le donne e del lavoro esterno e politico per gli uomini. E ancora adesso le donne sanno che, per emanciparsi e lavorare, devono marginalizzare il loro desiderio di maternità. Alcune comunità matrilineari vissute in epoche pre-patriarcali avevano dato vita a una struttura organizzativa inclusiva per le donne e i loro figli, senza asservimenti di genere. Queste culture arcaiche, attraverso una simbologia matriarcale, sottolineavano la potenza del corpo materno, che si apre per far nascere e che nutre e allatta. La Dea madre o Madre Terra era considerata una divinità primigenia e veniva rappresentata con caratteristiche genitali e sessuali molto visibili senza celare le differenze del corpo femminile. Lo strano e misterioso potere di figliare era celebrato come sacro e naturale. Per Aristotele, la physis è il perenne processo della nascita e crescita di ogni vivente che partecipa perciò dell’«essere – per – sempre nella natura». Questo principio, ripreso da Arendt è citato nel saggio di Cavarero: il pensiero filosofico maschile ha usato la metafora del parto per rinforzare la scissione tra la creatività intellettuale maschile e il potere riproduttivo della donna. Tale scissione ha sempre voluto sottolineare il primato della ragione sul corpo, spingendo verso la subordinazione e la rimozione del corpo materno nell’immaginario simbolico patriarcale. Invece il culto della Dea madre enfatizza e potenzia le immagini simboliche del corpo materno che nutre e genera.

Cavarero ci ripropone le ricerche dell’antropologa Marija Gimbutas, che a partire dal 1974 studiò la religione della grande Madre nelle civiltà neolitiche, dimostrando attraverso i reperti archeologici le caratteristiche pacifiche e comunitarie della cultura matrocentrica, in sintonia con la natura e in interconnessione tra tutti i viventi, animali e piante. Tesi osteggiata subito dall’ambiente accademico e poi, in seguito, da molte femministe, nel timore che celebrasse troppo la dimensione del materno, col rischio di rinchiudere di nuovo le donne nel recinto della sfera domestica. Non sembra probabile che discutere sulla nascita e sulla maternità voglia dire imprigionare le donne nella trappola di una funzione biologica che diventa un dispositivo normativo. È necessaria comunque, secondo Cavarero, una zoo-ontologia materialista, capace di affrancare la pluralità dei viventi dalla presa antropocentrica, dal suo slancio predatorio, distruttivo e autodistruttivo. In linea con le tesi di Bonnie Honig, si tratta insomma di recuperare la dimensione del materno non come trappola per la donna, ma come esperienza generativa, amorosa e trasformativa di indiscussa potenza esistenziale e di selvaggia vitalità nutritiva, oltre ogni copione patriarcale.

La disamina di Adriana Cavarero della mitologia classica legata alle icone dell’iper-materno, come Niobe e Latona, fa comprendere come le orride trasformazioni narrate, fino alla pietrificazione del corpo, abbiano avuto lo scopo di punire la celebrazione della potenza creativa/generativa della donna, considerata un atto di hybris, cioè un atto di tracotanza e di superbia, di arroganza e di insolenza, nella cornice misogina del sistema patriarcale.

Il tema della maternità rimane, oggi più di prima, una questione complessa, in bilico tra un’ingenua, idilliaca e accattivante celebrazione del destino biologico della madre e la denuncia femminista del suo essere prigione, fino al più moderno e controverso dibattito sulla madre surrogata e l’utero in affitto. Cavarero contrasta anche la posizione filosofica di Simone de Beauvoir, che, nel suo famoso saggio, Il secondo sesso (1949), considera la funzione riproduttiva come un rigido destino biologico, da cui ogni donna si deve liberare per realizzarsi come soggetto libero e aspirare alla trascendenza, oltre la mera conservazione della specie. Storicizzando le affermazioni di De Beauvoir, che operava in un’epoca dove il ruolo della donna/madre/schiava del sistema patriarcale era un dato incontrovertibile, dopo oltre settant’anni possiamo condividere la posizione di Adriana Cavarero nell’affermare con Luce Irigaray che non è il dato biologico della riproduzione la trappola principale per la donna: ciò che bisogna superare è questo anti-biologismo filosofico, promuovendo una diversa opinione del bíos, senza combattere la zoé. E in questa direzione di ricerca rimane valida ogni interpretazione filosofica e politica, che sposta il baricentro del primato dell’uomo sulla natura, valorizzando una concezione ecologica, tesa a proteggere il nodo biologico che lega tutti i viventi in un’unica rete, in un’incessante rigenerazione, oltre la violenza maschile e guerrafondaia.