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Quando fra i banchi dell’università appresi la distinzione fra langue e parole accettai supinamente e senza troppo pensarci l’idea che potesse esistere un aspetto “oggettivo” e uno “soggettivo” della lingua quasi annebbiando la natura convenzionale, e quindi politica, della langue; al tempo stesso questa passività strideva con il mio costante pensare e ripensare al significato delle parole e all’uso che di esse si faceva comunemente, spesso dannandomi o per l’uso improprio che si faceva di alcune o non concordando col significato convenzionale di altre. Grazie soprattutto al femminismo oggi possiamo dire che la lingua è politica e la parola è personale e che esse non sono due campi separati né separabili, nemmeno formalmente: dire che la lingua è politica significa far decadere la pretesa di carattere oggettivo pur mantenendo la dimensione convenzionale e significa anche insistere sul fatto che la lingua e le parole hanno a che fare con le relazioni di potere.

Le parole sono per me una mediazione fra l’esperienza che ciascuna di noi è/fa, la capacità di dirla e quanta possibilità di dirla esista; il mondo umano è un continuum semiotico1 nel quale veniamo immerse fin dalla nostra nascita, esso cambia forma, densità, funzionamento e struttura con l’umanità stessa. Ne Il materialismo dell’anima la filosofa Chiara Zamboni dice che ciò che chiamiamo anima è l’invisibile del visibile2; ripensando a queste parole mi sembra di poter osare di dire che persino il discorso ha “un’anima”: la parola è l’udibile e il visibile, cioè ciò che ci appare ai sensi, la relazione è l’anima. Se la relazione è l’anima del discorso e la relazione è politica allora i mezzi con cui si veicola la parola, la frequenza e il ritmo agiscono sulla forma in cui procede il mondo umano e ciò rende intuibile la direzione dell’umanità. Date queste premesse e se osservo l’oggi mi è evidente che la parola sorge in un campo di assenza di mediazione, cioè secondo il principio di immediatezza. Oggi si scrive e si comunica molto di più rispetto al passato, grazie a una tecnologia che ha reso irrefrenabile e infestante il dovere di comunicare con riferimento soprattutto alle applicazioni di messaggistica istantanea e ai social. Termini come “istantaneo”, “tempo reale”, “a caldo” non sono più descrittivi della potenzialità della tecnologia ma sono diventati espressione di una pratica relazionale che si manifesta nell’invito alla spontaneità coatta, all’essere sempre “dirette”, “in diretta” e “sul pezzo” soprattutto sui social, così che ciascuna si ritrova più o meno volontariamente nella condizione di continua e compulsiva autopresentazione3 senza avere il tempo per pensare.

Sottrarsi per continuare a pensare viene visto quasi con sospetto, soprattutto quando viene chiesta una presa di posizione su questioni che la macchina della comunicazione obbligatoria ci presenta come indifferibili e di primaria importanza tanto più quando la presa di posizione significa inserirsi in schieramenti contrapposti a beneficio del funzionamento dei social. Nonostante sia non di rado logorroica mi capita altrettanto spesso di non pronunciarmi su molte questioni e non perché non abbia un mio punto di vista, ma perché non desidero essere istantanea; mi piace restare sulle questioni soprattutto insieme ad altre per ascoltare e per porre domande. Ad aprile, per esempio, mentre scrivevo un contributo sulla mia esperienza in autocoscienza e riflettevo su questioni come “mentire su di sé”, “autotutela” e “autodifesa” mi è sembrato di non riuscire a cogliere gli aspetti della questione correndo quindi il rischio di scrivere una lamentazione sulle donne in autocoscienza; così ho chiesto alle amiche dell’autocoscienza di parlarne insieme. Il risultato è stato che ciascuna di noi ha riversato in quelle parole il suo vissuto facendo emergere un quadro complesso e multiforme: i confini erano porosi e lo scorrere dei significati mutava in base alle esperienze di ciascuna. Avevamo parlato delle parole ma anche delle nostre esperienze, del nostro modo di vedere e stare nel mondo. La parola umanizza, personalizza. Hannah Arendt diceva che «per quanto intensamente possano colpirci le cose del mondo, per quanto profondamente ci possano commuovere o stimolare, esse diventeranno per noi umane solo quando potremo discuterne con i nostri simili»4.

Cosa sarebbe successo se avessi adottato la pratica dell’immediatezza individualista a una questione delicata come lo è lo scrivere del “mentire su di sé”? La scelta di parlare delle parole, che è quello che poi ho sostanzialmente fatto in quell’occasione, è una pratica di mediazione; parlare delle parole significa sia stare in un processo specifico, sia poter scegliere in quali altri processi stare e come agire. Non bisogna illudersi che essa sia una pratica sempre portatrice di quiete, anzi conflitto, divergenze, esperienze dolorose sono all’ordine del giorno tanto quanto lo è esperire similitudini, riconoscimenti reciproci e somiglianze euforiche, ma solo così possiamo agire il potere. Nella riflessione su Lessing Arendt dice che «forza e potere non sono la stessa cosa; il potere infatti sorge esclusivamente là dove delle persone agiscono insieme, ma non là dove la loro forza cresce solo individualmente»5. In questa prospettiva la guerra e la forma in cui avviene oggi la comunicazione sono una manifestazione della forza in una contrapposizione di individui e macro-individui in cui solo la dimensione quantitativa ha valore e in cui la qualità e la diversità vengono fagocitate dalla forza numerica. Col Novecento si sono disciolte le ideologie ma non la società di massa che anzi ha trovato vigore nell’avanzamento galoppante delle tecnologie e delle scienze, dimentica di quanti orrori fossero stati commessi grazie alle scienze, esattamente come grazie alle filosofie e alle religioni, a partire dalla riduzione – ancora attualissima – degli esseri umani alle sole dimensioni di utilità e funzionalità. In un “mondo di massa” in cui bisogna prendere parola in modo immediato e in cui i tempi del pensiero personale e del pensare insieme vengono sempre più ridotti e stritolati in una morsa fra scientismo e profitto capitalista, l’infiltrazione della guerra non riguarda solo i campi semantici (battaglia, shitstorm, abbattere) ma anche il ritmo del ciclo pensiero-parola (il tempo che intercorre fra l’udire la caduta della bomba e la deflagrazione, per intenderci). Arendt però credeva, e lo credo anche io, che «nessuna forza sarà mai abbastanza grande per sostituire il potere; ovunque la forza si confronterà con il potere soccomberà sempre»; insistere perché le questioni non vengano chiuse e non siano pensate come date una volta per tutte e coltivare le relazioni di scambio/mediazione mi sembrano ciò che è alla nostra portata per mutare la direzione. Parlare-delle-parole è agire il potere e non la forza.

  1. Rocco Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Bruno Mondadori 2003, pag. 19. ↩︎
  2. Chiara Zamboni, “Il materialismo dell’anima”, in La sapienza di partire da sé, a cura di Diotima per Liguori Editore 1996, pag. 160. ↩︎
  3. Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino 2009. ↩︎
  4. Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis 2023, pag. 47. ↩︎
  5. Ibid., pag. 45. ↩︎