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da Alias Domenica, l’inserto culturale del manifesto

Ho preso la pratica politica delle donne
come forma simbolica che mi permetteva la scrittura.
(Luisa Muraro)

Mi ha lasciato stupito, stupito e coinvolto, ciò che Luisa Muraro ha raccontato di sé in una lunga serrata conversazione con Clara Jourdan che risale al 2003 e solo ora è pubblicata integralmente nei Quaderni di Via Dogana (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano, pp. 244, euro 15,00). Lo stupore è venuto dal modo interrogativo con cui Muraro riferisce del suo itinerario intellettuale e delle scelte esistenziali attribuite a una sua disposizione ad affidarsi alle occasioni, agli incontri più che a una progettualità fermamente perseguita. Cosa che a prima vista contrasta con l’immagine pubblica di leader del femminismo, che negli anni sessanta e settanta ha impresso un segno profondo nella società italiana. «Per me – dice – è stato difficilissimo orientarmi, decidere, capire, risolvere i problemi dentro, risolvere quelli fuori». Si riferisce soprattutto agli anni giovani, difficili per tutti, in particolare per chi porta in sé un bisogno di capire e di esserci, ma avvertendo l’interlocutrice che ora vuol giocare a carte scoperte, che quel suo affidarsi a chi «ha l’aria di sapersi orientare» è costitutivo di sé, è il suo modo di stabilire la relazione non senza una buona dose di egocentrismo.

Né è solo questione di persone (di volta in volta Bontadini, Fachinelli, Grazia Cherchi, Lia Cigarini), ma anche di ciò che queste portavano con sé: la filosofia, la psicanalisi, la politica, infine il femminismo, usati come interfaccia tra sé e la realtà per pensare e scrivere, che per lei è da sempre un bisogno primario. Cosicché, «Era il cattolicesimo? Andava bene il cattolicesimo, a certe condizioni, che non si sono realizzate. Era il comunismo? Poteva essere il comunismo, a certe condizioni, che non si sono realizzate. Per finire è stato il femminismo, a certe condizioni che si sono realizzate. È questa la logica esistenziale mia. Cercare le condizioni entro cui io potessi pensare e scrivere». Una logica che ella stessa scopre come «il punto cieco» di una biografia che rischia un esito nichilistico (lasciare che sia l’altro a «portare il peso della cosa» garantendole l’indispensabile appoggio simbolico), se non si arriva a chiarirlo dipanando il filo lungo degli interessi, degli scritti, delle azioni, ma innanzitutto prendendo atto di un suo modo di esserci e di pensare che scopriva estraneo alla cultura dominante dell’oggettivazione.

Capire Luisa Muraro non è agevole; d’altronde a leggere questo tentativo autobiografico non lo è neppure per lei stessa, che ha la saggezza di non provarci. Non cerca di mettere in fila le cose, di stabilire un ordine a posteriori, di spiegarsi spiegando in prima persona l’enigma di un’esistenza. Preferisce parlare della sua passione dominante: «Io sono una che scrive sempre». Ne è testimonianza questo stesso volume che per più di metà è occupato da una Bibliografia che dà conto di un profluvio di libri, saggi, articoli, interviste, traduzioni e inediti. Su questa passione e le sue ambiguità lei ragiona (aveva puntato dapprima a «entrare nel mondo degli uomini», convinta che solo esso le avrebbe consentito di pensare e scrivere). Ne cerca il significato non solo in termini personali; fa del suo caso un esempio di strategia comune a molti di «tentare di rigiocare sul piano della cultura umana qualcosa che è andato male», lo si faccia con l’agire politico o con il lavoro culturale o col fare famiglia o, nel suo caso, con lo scrivere libri.

Libri che sono in gran parte scritture su donne vissute al confine di un altrove e ciò che questo ha significato e significa per il bene dell’umanità. Così è stato con La signora del gioco, quella prima occasione in cui le è riuscito di dare a una vicenda di caccia alle streghe la forma simbolica della pratica politica delle donne e, a seguire, con Guglielma e Maifreda, una «storia di grandezza femminile finita tragicamente», in cui l’autrice si è autorizzata a dare spazio all’immaginazione per supplire a quanto non è documentato, nel convincimento che sottoporre a tensione le regole del lavoro storiografico, dando spazio all’immaginario, a certe condizioni lo arricchisce. Libro che per lei ha segnato altresì l’inizio di un lungo viaggio nel territorio della mistica, sostenuta dal convincimento che la libera ricerca di Dio fosse «forma di libertà femminile nell’Europa premoderna, ma anche nella scrittura femminile moderna e contemporanea», culminato con lo studio dedicato alla «filosofia mistica» di Margherita Porete.

Un saggio, questo, che a suo tempo ebbi il torto di non capire a fondo per essermi arrestato di fronte all’evidenza della perdita nella modernità di quanto aveva sostenuto l’esperienza spirituale di Margherita Porete, e dunque il venir meno delle condizioni culturali perché a una siffatta esperienza sia ancora riconosciuto un valore per l’insieme della vita sociale. Mentre è pur vero che nel passaggio dall’universo medievale a quello moderno la letteratura mistica ha seguitato a informare sotterraneamente una scienza altra da quella dominante, per dire ancora l’indicibile seppure slegato dalla scienza teologica. Cosicché, come aveva ben mostrato Michel de Certeau, motivi mistici sommersi hanno seguitato a emergere nelle discipline psicologiche, filosofiche, psichiatriche, romanzesche contemporanee e, certo, particolarmente nel linguaggio delle donne, nutrendo ancora la capacità di accogliere ciò che eccede la pretesa di totalità dei saperi costituiti. Un «niente» che non è perciò meno reale. Quell’infinitamente piccolo che per Simone Weil fa la differenza nel modo di concepire la vita sociale a tutti i livelli e che ha condotto Muraro a tentare la difficile via di dire Dio in una lingua altra da quella del possesso, la lingua de «l’umanità che sa che l’essenziale non è nulla che possiamo produrre o conquistare o possedere, ma solo aspettare e ricevere». Una «teologia favolosa» che negli scritti di tante donne, ma non solo, ha trovato esiti sorprendenti quanto liberanti, coniugata con la fede o fiducia nella possibilità di dare forma al desiderio dell’impossibile, nel convincimento che «dire la verità ed essere buoni sono scommesse che siamo destinati a perdere, ma tali che, spinte fino in fondo, perdendo si guadagna».

In definitiva è alla ricerca di un altro pensiero teologico ed etico – attestato negli anni che hanno seguito l’intervista da Il Dio delle Donne e da Al mercato della felicità –, cioè di una scienza altra rispetto a quella praticata dalla cultura moderna, che Luisa Muraro si è mossa, provenendo, come lei ricorda, «da una formazione mista di religione patriarcale e di cultura agnostica». Una «teologia in lingua materna», portatrice di parole ed esperienze non più isolate nello specialismo; messe al riparo dall’universalismo astratto, affinché «possano stare nella nostra mente come il pane sulla tavola: preziose e comuni». E un’etica del desiderio impossibile, pari a quello della vecchia filatrice di lana che va al mercato per l’acquisto di quel che la pochezza dei mezzi non le consente, e che tuttavia non viene meno nel convincimento fermo che «c’è altro», su cui non ci si deve stancare di puntare.

Sono questi, mi sembra, gli scritti che consentono di misurare al meglio gli esiti a cui Luisa Muraro è pervenuta grazie a una capacità di movimento, di messa alla prova di sé nelle situazioni date, fino all’incontro con quel femminismo «sorgivo» che le ha permesso di scrivere. Ma non è stata questione di nichilismo, quanto di riconoscimento che il femminismo le consentiva finalmente di dar forma al desiderio di riuscire a pensare il rapporto tra l’io e l’altro, tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità, tra corpo e anima, cioè precisamente tutto quanto la «cultura alta» a cui aveva inizialmente ambito ignora per non rischiare di doversi misurare con l’impensato.

(*) Pubblicato su Alias Domenica, l’inserto culturale del manifesto con il titolo “Muraro, per un teologia in lingua madre”