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Da Nuova Ecologia – Femminista, comunista, ambientalista. Il testo che segue è un “montaggio” dell’intervento della giornalista allo Youth climate meeting, l’incontro su giustizia climatica e transizione rivolto alle attiviste e agli attivisti di Legambiente, e non solo.

Mi chiamo Luciana Castellina, sono nata molti secoli fa e avrei tante cose da raccontarvi, ma andrei troppo per le lunghe. Sono presidente onoraria dell’Arci, di cui Legambiente è figlia. Faccio anche parte di un partito politico, Alleanza Verdi Sinistra, sebbene creda molto poco nei partiti in questo momento storico. E poi faccio un milione di altre cose, soprattutto necrologi, perché sono l’unica “sopravvissuta”.

L’imbroglio del neutro

Credo si debba salutare con forza l’espressione “ecofemminismo”, perché ogni cosa dovrebbe essere vista dal punto di vista delle donne, non solo l’ecologia. Se dobbiamo spiegare la questione femminile, bisogna innanzitutto dire che c’è stato un imbroglio storico, quello che chiamo l’imbroglio del “neutro”: utilizzato come riferimento di tutte le regole, di tutte le leggi, dell’intera organizzazione della società. Si è inventato un cittadino neutro e tutto è stato riferito a “lui”. Ma non nascono bambini neutri: nascono femmine, maschi e anche bambini di qualsiasi altro genere… Il cittadino neutro è stato disegnato come un maschio, come se questo potesse andar bene sia per le donne che per gli uomini, ma è un imbroglio appunto. Non è vero che maschi e femmine sono uguali: hanno esigenze diverse, corpi diversi, menti diverse. Parlare di “ecofemminismo” mi sembra quindi un grande passo avanti, perché almeno sull’ecologia si è cominciato a pensare in termini più articolati. Questo imbroglio è così forte che ho scoperto, e non volevo crederci, che anche nei sindacati quando ci sono trattative per il rinnovo di un contratto – e molto spesso dentro ci sono questioni relative al corpo di chi lavora, pensiamo alle malattie professionali – non viene mai preso in considerazione il corpo delle donne ma solo quello degli uomini, anche se il sindacato ormai ha una fortissima percentuale di donne al suo interno. Adesso si tratta di metterlo in pratica, l’ecofemminismo, di cominciare a pensare ai problemi della transizione ecologica e concentrarsi sul che fare. Le donne hanno un ruolo molto importante, per una ragione in particolare: perché bisogna ripensare il mondo in modo diverso da prima e se c’è qualcosa da ripensare è come ci collochiamo noi. Le donne non hanno mai determinato il modo in cui si deve fare il mondo, l’hanno sempre fatto gli uomini e noi ci siamo dovute adattare facendo finta di essere uomini, cosa spesso complicata, soprattutto durante una gravidanza.

Città femminista

Un aspetto fondamentale della transizione è come ridisegnare la città. E noi donne abbiamo il diritto di farlo a partire dal nostro punto di vista. Fino ad oggi non è stato possibile perché eravamo chiuse in cucina, e quindi si trattava al più di ridisegnare la cucina. Ridisegnare la città vuol dire, innanzitutto, pensare alla vita delle donne perché tutte le regole sono state fatte senza pensarci. E poi c’è un grande problema sul lavoro di cura, che serve a uomini e donne ma che ad oggi sembra riguardare soltanto la fatica gratuita delle donne. Con un gruppo di compagni e amici abbiamo messo su una task force in cui dentro c’è il meglio dei vari settori di cui la questione ecologica si compone, dalle politiche energetiche alla città. La prima iniziativa è stata proprio aprire un dialogo con il sindacato degli edili. Perché, se è vero che non si può più continuare a cementificare le città, che anzi si devono “rammendare”, cambiare senza consumare altro suolo, bisogna anche ripensare il lavoro degli edili. Questo lavoro di “rammendo” ha un interlocutore fondamentale: il femminismo. Così abbiamo fatto un’assemblea con il segretario generale del sindacato edili e i collettivi femministi di Roma per discutere della “Città femminista”. Va ripensato tutto, a partire dal cambiare l’abitare. Servono spazi, non basta l’asilo, ammesso e non concesso ci sia. Ma anche quando c’è, nessuno ha pensato al fatto che se il bambino prende il morbillo non posso portarcelo. E se lavoro, dove lo metto? Serve una soluzione. Lo stesso vale per il nonno: che faccio se si ammala? Bisogna ricostruire i quartieri affinché in ogni complesso ci siano “due stanze”, dove mettere nonni e bambini. Abbiamo bisogno di servizi che svolgano quel lavoro di cura che ricade esclusivamente su di noi. Questo cambia il mestiere degli edili, perché un conto è costruire Tor Bella Monaca, un altro è stare nel quartiere e vedere insieme a noi donne cosa, come e dove cambiare.

Il lavoro di tutta la vita”

Per capire che ero donna ci ho messo un bel pezzo. Non so se voi avete fatto prima, ma la mia generazione ha fatto fatica. Ho pensato a lungo che le donne fossero un po’ meno degli uomini: lo stesso essere umano ma un po’ più scemo, deboluccio. Abbiamo passato la giovinezza a cercare di nascondere di essere donne, a dimostrare che eravamo come gli uomini. E non è un grande obiettivo nella vita. Dovevamo scoprire chi fossimo. Lo ha spiegato bene Simone de Beauvoir: «Capire cosa vuol dire essere donna è un lavoro di tutta la vita». Ci si arriva poco per volta. Per questo la mia generazione ha capito così poco quando è esploso il femminismo. Le donne hanno cominciato a essere insofferenti nei partiti e in tutte le organizzazioni. Hanno creato i gruppi di autocoscienza, motivo di battaglia all’interno di tanti partiti. Ricordo quando al manifesto, negli anni ’70, decidemmo di organizzare un gruppo di lavoro sulla questione femminile: arrivammo e c’erano solo uomini, neppure una donna. Non era voluta venire nessuna, giustamente. Organizzammo quel gruppo senza aver capito che cos’erano i gruppi di autocoscienza, che sono stati invece momenti di riflessione fondamentali per capire qual era la nostra identità, avendone patita una che ci era stata cucita addosso. Fondamentalmente, i gruppi di autocoscienza sono stati un’inchiesta su noi stesse. E sono stati straordinariamente utili.

Meno carità, più politica

Un paio d’anni fa, all’ennesima richiesta di sottoscrivere un appello, mi sono ripromessa di non firmarne più neanche uno. La politica non può ridursi all’appellismo… Si mette una firma per rivolgersi a chi? Chi crede al Padreterno fa bene a rivolgersi a lui. Ma chi non ci crede a chi si rivolge? Il timore è che la politica si riduca a questo, quando invece è dire come io cambio il mondo, non chiedere a qualcuno che lo cambi per me. Ci si può rivolgere alle istituzioni, certo, ma è importante ricordarsi che ognuno di noi è un soggetto che può scegliere come ridisegnare il mondo. Sei tu quello che caratterizza la democrazia, non cosa sei tu. Sei tu, in qualche rapporto con gli altri. Anche il Papa l’ha capito. In uno dei suoi discorsi ai giovani, il pontefice ha detto che non serve la politica per i poveri, la carità, ma la politica dei poveri. È quello che diceva Marx, riferendosi alla classe operaia: i poveri devono conquistare la forza per essere loro la forza del cambiamento. Poi Bergoglio, nel timore di non essere capito, c’è tornato sopra: «La carità è una bellissima cosa, però ci vuole la politica». La politica è la soggettività, innanzitutto. E questo vale anche per noi donne, dobbiamo essere noi le protagoniste di quello che vogliamo fare. Non voglio la politica per le donne, voglio la politica delle donne. Altrimenti è carità.

Rivoluzione in corso

Abbiamo così tante cose su cui protestare che qualcuno potrebbe pensare che noi donne, poverette, stiamo malmesse. Stiamo benissimo, invece, e stiamo facendo la rivoluzione. Altre non ne vedo. Ne abbiamo fatta una straordinaria: ci stanno a sentire, quando prima non eravamo credute. Pensiamo alla cosa più banale: le ragazze americane che hanno denunciato i potenti di Hollywood riuscendo a mandarli in galera. Quando mai le donne hanno avuto questo potere? Qualcuno dirà: «Sì, ma continuano a essere ammazzate». Cito Lenin: «Non c’è rivoluzione senza spargimento di sangue». Ecco, non c’è niente da fare: la rivoluzione costa cara, e credo che l’esplosione di femminicidi lo dimostri. Loro ammazzano le donne che si evolvono, che si stanno liberando, che li stanno lasciando. Rossana Rossanda ha scritto un bellissimo libro, pubblicato dopo la sua morte: Un secolo, due movimenti. Si chiedeva, e chiedeva: «Possiamo ricomporci politicamente superando questa fase in cui siamo in lotta, maschi e femmine?». Domanda difficile. Penso che siamo lontani, ma che debba esserci l’obiettivo di una visione del mondo capace di superare la crisi che stiamo vivendo. La risposta di Rossanda era: «Sì, possiamo stare nello stesso partito, perché è vero, siamo due movimenti diversi perché la nostra condizione è diversa, però lo stare nello stesso partito è quello che dà, anche a noi donne, la forza di essere parte di un grande movimento popolare».

Quote rosa

Credo che la campagna di Giorgia Meloni sulla natalità – «non nascono più figli perché le donne sono pigre» – sia pericolosa, perché quelle argomentazioni rischiano di diventare popolari. E dobbiamo stare attente perché c’è un modo di combatterle che può diventare a sua volta pericoloso: le quote rosa. Per un verso le capisco perché sono simboliche. Non possiamo però nasconderci un fatto: come fa una donna con due figli a fare la parlamentare? Queste scelte comportano sempre una rinuncia: una può decidere se i figli li vuole o no, ma chi li vuole, e cioè la maggioranza delle donne, come fa? Mi spiego meglio. Se facciamo la battaglia solo sulle quote rosa rischiamo di essere perdenti, perché prevarrebbe il buon senso. Ho visto i dati delle donne manager: hanno figli nel 30% dei casi, i maschi manager nel 95%… Servono battaglie tradizionali, come quella per gli asili nido. Parlare di quote rosa senza includere questo equivale di fatto a dire che l’unica soluzione per noi è smettere di lavorare, che le lotte passate ci si rivoltano contro. Scusate se insisto ma ribadisco che ci sono vecchie lotte da continuare. E che la più importante di tutte è socializzare il lavoro di cura, altrimenti finiremo tutte a casa a fare le madri e le badanti.