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Nelle indagini femministe sulle donne che hanno pensato il femmineo c’è un nome che spesso non trova posto: quello di Lou von Salomé. Forse perché non arruolabile né tra le file delle riflessioni sulle teorie di genere né tra quelle sulla differenza sessuale, la sua vicenda biografica e letteraria si oppone a ogni tentativo di incasellamento.

Di Lou Salomé poco si sa, o forse troppo. Spesso evocata, richiamata e indicata per lo più per le sue vicende biografiche, poco si conosce della sua (cospicua) produzione letteraria.

Molte delle sue opere non sono neppure tradotte non solo in italiano ma neppure in altre lingue. Se il destino delle sue opere singole è quello di essere trascurate, ben peggiore è quello della sua produzione sparsa in riviste e volumi collettanei. Solo recentemente una casa editrice tedesca, la MedienEdition di Ursula Welsch, ha intrapreso la pubblicazione di tutto il materiale raccogliendolo per tematiche. Questa attività, indispensabile e decisamente utile, corre però il rischio di catalogare i vari articoli in maniera univoca impedendo di fatto eventuali possibili altre combinazioni. Un esempio sono gli scritti su donne: a seconda che si tratti di letterate o filosofe sono stati sistemati in volumi differenti rendendo un po’ difficoltosa un’indagine, appunto, sul femmineo in Salomé. E invece, se andiamo a osservare il semplice elenco cronologico, ci rendiamo conto che Salomé si occupò del femminile sin dai suoi primi scritti. Lo scritto sulle figure femminili nei drammi di Hendrik Ibsen Frauengestalten è del 1892 a cui seguono alcuni articoli e contributi su riviste, dedicati a letterate e pensatrici. La sua prima analisi autonoma sul femmineo la troviamo nel 1899 Der Mensch als Weib. Qui Salomé conserva il tradizionale abbinamento maschile-mente e femminile-corpo ma attraverso le lenti filosofiche che ha ereditato dal suo filosofo preferito, Baruch Spinoza (benché questi non venga esplicitamente citato in questo testo, sappiamo che era da lei conosciuto sin da giovane e che non smette di essere richiamato in momenti importanti della sua riflessione filosofica), riesce a proporre una nuova versione emancipatoria del femmineo stesso, versione emancipatoria che lei stessa, nella sua vicenda biografica, mostra e persegue. A partire dalle a lei recenti scoperte in campo biologico, soprattutto relativamente alle cellule riproduttive, e conservando un impianto spinoziano in cui mente e corpo, cioè maschile e femminile, sono espressione di una medesima sostanza, Salomé riesce a leggere la differenza maschile e femminile senza dover ipotizzare alcuna conflittualità. Anzi, proprio la loro differenza permette una reale collaborazione tra le due espressività. E questa differenza, che emerge particolarmente vivida nelle composizioni corporee, è altrettanto presente nelle forme che la mente assume. Ci sono, per Salomé, differenti assetti biologici e, simultaneamente, differenti maniere di pensare e quelli e queste sono egualmente degni e degne di essere analizzati e analizzate poiché sono tutti e tutte espressioni dell’unica sostanza. Lo scritto ebbe così tanto successo che Martin Buber le scrisse chiedendo di elaborare un testo per la collana che lui dirigeva. Lei gli inviò solo nel 1910 il risultato del suo lavoro dal titolo Die Erotik. Qui la riflessione sul femmineo e le sue differenze con il maschile sono immerse in un’indagine più ampia che abbraccia l’essere vivente e che ha nell’eros la sua espressione più eloquente. L’eros, infatti, è il campo privilegiato per indagare gli effetti corporei e quelli mentali dal momento che esso, cha ha le radici nella sessualità del corpo, si espande fino alla mente. Se l’eros è una pulsione primaria di ogni vivente, esso si manifesta nel maschile e nel femminile in forme differenti che sono corporee e mentali al contempo. Maschile e femmineo, quando è questione di eros, manifestano la propria singolarità il primo espandendosi verso sempre nuove conquiste, il secondo ripiegandosi verso un’unità con l’intero vivente. E se questo avviene al livello del funzionamento del corpo, esso è ugualmente riscontrabile nei procedimenti della mente. Maschi e femmine hanno menti diverse perché hanno corpi diversi. Questa diversità, però, giace su una unità di fondo indissolubile. Quindi non due sostanze, non due nature ma un’unica sostanza, un’unica natura che si esprime in modi diversi. L’Eros permette di cogliere tutto questo. Per Salomé, di cui Martin Buber ebbe a dire del suo lavoro quando lo lesse «è platonico e spinozista», prende da Platone il mito del Simposio e da Spinoza la potenza del conatus. Questa impostazione è ripresa dall’intellettuale fino al 1931 nel suo magistrale Mein Dank an Freud.

La riflessione sull’arte di Salomé si innerva nella sua indagine sul femminismo. Anche in questo caso occorre rilevare un interesse di Salomé per l’arte sin dai suoi primi lavori. Ma è con il suo incontro con Freud che la sua riflessione sulla creazione artistica prende forma e consistenza soprattutto attraverso il concetto di narcisismo che Salomé rielabora alla luce del suo pensiero sul femmineo. Nel suo saggio Narzißmus als Doppelrichtung del 1921 il narcisismo, cioè ciò che sta alla base della creazione artistica e che per Freud è sintomo di un regresso e (possiamo dire) è segnale della presenza di una nevrosi, da Salomé è rivisto e proposto non come una tendenza regressiva, ma come espressione della componente femminea dell’essere umano. Femminea che per Salomé vuol dire corporea nella sua massima espressione che nulla deve alla mente. Salomé conobbe da vicino questa natura. Amata da Rilke di cui contraccambiava l’amore, conosce la potenza della creazione artistica che tende a sciogliere l’artista in una sostanza universale. Come il femmineo così l’artista conserva un legame profondo e corporeo con l’unità universale di tutto. Ed è per questo che, per Salomé, non è l’artista che fa della propria vita un’opera d’arte ma è la vita stessa che fa dell’artista, se lui si concede, un’opera d’arte.