Condividi

Ho sentito il bisogno di pensare a come si dà un orizzonte alla scommessa del partire da sé per collocarmi rispetto alle varie accezioni con cui questa invenzione politica è stata interpretata e declinata: messa in guardia prima di tutto dall’autobiografia, dalle invadenti manifestazioni dell’ego narcisistico-autoreferenziale che domina nel sistema mediatico; ricerca della verità soggettiva, del sé relazionale in situazione, in una mescolanza di conscio e inconscio. Ecco io penso l’orizzonte del partire da sé come bordo che può dare accesso a un altro universo. L’abbiamo chiamato cambio di civiltà da qualche tempo.

«Punto di partenza», parole di Luisa Muraro1 «il vissuto vissuto, con tutto quello che ha di determinato, e un vissuto ancora da vivere (il desiderio) […] non in posizione di soggetto ma di complemento in relazione con altri. […] Necessità della riconoscenza e del primato della relazione». 

È come il viaggiare2, una scommessa rischiosa. 

Angoscia e desiderio mi hanno spinta a prendere la parola quando l’anno scorso Cristina Gramolini della rete Dichiariamo, di cui faccio parte, ha detto che avrebbe voluto fare un’iniziativa pubblica in occasione dell’8 marzo. Ecco lì il mio vissuto vissuto ha agganciato il mio desiderio. Ho capito e sentito cosa era per me necessario: stare al presente, alla realtà intorno a noi, cogliere il kairos, la potenzialità dell’ora è adesso, tutte le occasioni di rilancio di una pratica femminista. Ho visto una prospettiva, un chiaro nel bosco, che avrebbe rotto il silenzio, l’impasse di un tempo incompreso, quello che stavo vivendo, di una guerra che si aveva paura a chiamarla con quel nome. Mi sentivo disorientata, non sapevo come parlarne se non con discorsi masticati e rimasticati, come sono le sofisticate analisi degli esperti di geopolitica che non facevano che intensificare la mia sofferenza. Ecco l’occasione, posso contrastare la pervasività della guerra, che è rottura di legami, distruzione e annichilimento, rilanciando, dando fiducia e forza alla politica femminista, mostrare che sono possibili pratiche di parola e di narrazione, ispirate alla vita e alle relazioni. Come è stato in passato negli anni Settanta, ci ricorda Lia Cigarini, il femminismo della differenza è nato a prescindere dalle guerre. È vero che oggi è in atto un percorso con uomini che riconoscono e ascoltano la parola femminile e s’intravede una possibile alleanza con coloro che sono coinvolti nel cambiamento e ripensano la virilità, ma di contro le guerre hanno rallentato questo nuovo corso e potrebbe anche prevalere l’alleanza fra uomini, cioè un ordine simbolico fratriarcale/filiarcale3, con inclusione delle sorelle in posizione paritaria. 

In questa cornice di realtà di cui ero ben consapevole, mi assunsi il rischio e scrissi un appello per una chiamata a un convegno. Cosa scrissi? Partii da me, un titolo mi si presentò alla mente e al cuore, “Addio alle armi”, non nuovo ma che rifletteva un tragico nodo famigliare, la morte di mia madre per arma da fuoco e il conflitto con mio fratello4, che ritenevo in parte colpevole, rielaborato in una pratica di relazione, che mi riportò al presente di una guerra fratricida, Russia-Ucraina, che dura tuttora. Una realtà in cui potevo avere parola in nome della verità soggettiva, che non è soggettività autoreferenziale ma un sé intriso di relazioni che si è costituito in una pratica, quella della Comunità di storia vivente, in cui il nesso autorità-verità si è manifestato. Luogo in cui grazie al primato della relazione di affidamento e al riconoscimento di autorità ho trovato il coraggio di scommettere sul partire da sé. Un processo, che avuto avvio da dentro, si è messo in moto e il mio appello è stato subito pubblicato su un giornale nazionale e a cascata altre voci, iniziative, prese di posizioni, manifestazioni pubbliche si sono succedute. A questo proposito ho sentito veritiera e corrispondente alla mia esperienza la riflessione di Chiara Zamboni quando scrive che «il punto più soggettivo tocca l’oggettivo. Non c’è contrapposizione o separazione»5.

La guerra non è forse un accumularsi di nodi irrisolti che si depositano nella storia dei popoli, nella profondità delle viscere degli umani e dei territori, che fanno ammutolire e chiudono ogni via d’uscita se non quella delle armi? 

Per questo dico a Mira Furlani che il partire da sé quando permette grazie a una relazione di fiducia di raccontarsi, di sciogliere il nodo del silenzio sulla propria storia, quella che ha narrato nel suo libro Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, non è molto differente dalla mia esperienza che si colloca in un orizzonte di trasformazione radicale e di riappropriazione della storia, destoricizzandola, facendo spazio alla verità soggettiva. Come scrive Marirì Martinengo, il partire da sé è farsi documento vivente, e dove c’è produzione di verità soggettiva, c’è anche autorità femminile e viceversa. Non a caso Mira ha preso coraggio e si è decisa a narrare la sua verità, su cui rimuginava da anni, sulla spinta, l’incitamento e il pensiero di Luisa Muraro. Così è nata la versione dei fatti di Mira sull’Isolotto e anche la sua autorità. Non si tratta di soggettivismo, né di biografia, né di un ego contro un ego in armi. Una scommessa nata da un desiderio che ha prodotto critiche, ma anche sostegno, una battaglia di parole, non uno scontro armato di droni, missili, bombe, aumentati in potenza distruttiva dall’intelligenza artificiale. Ferite sì, conflitti relazionali, ma non una storia sacrificale. Un punto fermo, un soggetto, lei, Mira, che ha interrotto la ripetizione, il già detto della Storia, riportando sulla scena il rimosso cancellato. In questo movimento c’è di mezzo la libertà femminile, almeno per me è stato così, che pare non coincida con la democrazia rappresentativa paritaria.  

Una pratica che ha mostrato tutta la sua efficacia anche nel caso più recente dell’appello “Mai indifferenti – Voci ebraiche per la pace” promosso da Renata Sarfati con altre, altri, sulla guerra Israele-Palestina. Il suo gesto ha incoraggiato a prendere la parola e ha trovato maggiore risonanza e sostegno pubblico di altre prese di posizione più neutre.

Mi ha colpito il ragionamento di Massimo Lizzi, Il partire da sé è sfuggente, quasi cartesiano nel suo procedere, che porta a dare un valore positivo al senso di colpa e la fuga da sé con la conseguente presa di distanza dal desiderio. Ho percepito una forte reticenza dettata dal pericolo di una frustrazione che può venire da un’esposizione di sé troppo aperta/scoperta e da relazioni troppo strette. Su un punto non concordo, e cioè che per il movimento delle donne degli anni sessanta, il separatismo, la presa di coscienza siano stati necessari per affermare un’identità. E per gli uomini Massimo non ne vede la necessità. Per le donne erano in gioco la libertà e la differenza sessuale, non l’identità, e penso che questo potrebbe essere un di più anche per un uomo se riesce a sciogliere il nodo del senso di colpa. Se invece mette in capo al ragionamento i principi come àncora di sicurezza per timore di sbilanciarsi, capisco la sua fatica a vedere un orizzonte nella scommessa del partire da sé.

  1. Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare. La partitura della nascita, in Diotima. La Sapienza di partire da sé, LIguori, 1996, pp.20-21  ↩︎
  2. «È come il viaggiare, che non solo, che non solo ti fa allontanare dai luoghi familiari e vedere cose che altrimenti non avresti visto, ma te le fa vedere come nessuno può fartele vedere senza quello spostamento. C’è fatica disagio, c’è perfino distrazione e perdita di concentrazione, eppure il lavoro del pensiero non ne soffre, anzi». Ibidem, pp. 8-9. ↩︎
  3. Lia Cigarini, Per non diventare tutte/i transessuali simbolici. Una lettura attuale de I sessi sono due di Antoinette Fouque, Milano, luglio 2017 ↩︎
  4. Laura Minguzzi, Il nodo della casa, in AA.VV. La spirale del tempo, Moretti&Vitali, 2018 ↩︎
  5. AA.VV., L’inconscio può pensare? A cura di C. Zamboni, Moretti&Vitali, 2013, pp. 102-116 ↩︎