Lo strumento sei tu
Luisa Muraro
21 Novembre 2017
Nell’incontro di Via Dogana 3 La Rete è nella nostra realtà. Come starci?, nel discorso di Loretta come anche di Tahereh c’era una radicalità che è andata persa. Tutte le cose che sono state dette sono, più o meno, interessanti. Però dallo scambio emerge una postura di fondo che non va, secondo me: «Non bisogna demonizzare, ho sentito dire a proposito della rete. Dobbiamo credere che quello è uno strumento», è stato anche detto. Uno strumento?
A suo tempo si è voluto pensare, si è cercato di credere che l’intelligenza artificiale sarebbe stato uno strumento per gli esseri umani, ma adesso si è capito che no, l’intelligenza artificiale prende il posto della intelligenza umana. Prende il posto della sensibilità, della casualità, della inventività – l’intelligenza artificiale è inventiva. Prende il posto di lavoro, naturalmente, e prende il posto della politica, e delle nostre capacità di capire – l’intelligenza artificiale è molto capiente. Più o meno, lo stesso che è capitato in generale della la tecnoscienza: si credeva che sarebbe stato uno strumento ma… La questione bisogna dirsela.
L’unica risposta che io vedo alla contraddizione dello strumento che non è uno strumento – risposta che qui qualche volta è affiorata – è di sapere che noi siamo un elemento estraneo là dentro.
Quelle che dicono «io non ho competenze però sono contenta che quella lì ce le abbia» ecc., è un discorso sensato a metà. Tutte abbiamo competenza della impotenza in cui ci troviamo. Tutte, tutti lo sappiamo. Che sia in un modo o nell’altro, che sia così o per colà, l’esperienza e la sensazione d’impotenza non ci mancano, il mezzo lo conosciamo… Però accadono cose, sono d’accordo, e il grande accadimento è il cambiamento in corso nei rapporti tra i sessi, tra donne e uomini. Per amore di libertà da parte delle donne. Detto così è molto vago e in questi contesti di scambio possiamo cercare di uscire dal vago per trovare formule parlanti a noi stesse e ad altre. Ci sono delle cose che accadono. La soggettività autonoma femminile è la cosa che accade. Torno con la mente alle origini del cristianesimo, che mi aiuta sempre a ragionare sulla politica del simbolico… Quando i Romani, parlo di una piccola minoranza, primo secolo dopo Cristo, si sono convertiti al cristianesimo in Roma, che era il teatro della strapotenza dell’imperatore, Paolo scrive loro una lettera. C’è un famoso passaggio della Lettera ai Romani che ha provocato poi studi bellissimi, e commenti in abbondanza ecc., perfino io ci ho provato a commentarlo, chissà se hanno capito quei poveretti che mi avevano chiesto qualcosa sulla differenza sessuale e io gli ho spiegato l’indipendenza simbolica. Paolo dice ai cristiani di Roma: «si obbedisce all’imperatore, si obbedisce ai padroni, si obbedisce»… Cosa volete farci? nella disparità di potere si obbedisce. E dopo questo passo che ha scandalizzato tanto, «poi noi abbiamo la nostra legge». E si riferisce naturalmente alla legge dell’amore. Lui non precisa ma sembra sia la legge dell’amore. L’importante è lo stacco: «Noi abbiamo la nostra legge.» Cioè c’è la differenza, la differenza è quello che conta. La differenza serve per esaltare la soggettività libera. E lì, nella tecnologia digitale, come nell’impero romano, bisogna fare questo: entrare come un elemento non integrabile, come un elemento che fa stonato.
Qui, io ho sentito tanti esempi di buon senso che accomoda. No, no, no: niente il buon senso che accomoda! Prendiamo il caso dell’aborto e di come ne parla Augias. Certo che c’è una legge che permette alle donne d’interrompere la maternità ed è una buona legge, anche. Ma quelli che fanno l’obiezione di coscienza non sono degli stronzi, sono delle persone che hanno fatto medicina non per quello e non vogliono… Può darsi che ci siano anche i filoni, e ci sono, che mimano l’obiezione di coscienza, o per soldi, ma non sono tutti così, è l’aborto in sé… Allora, bisogna sapere che l’aborto è brutto, non abbiamo mai teorizzato – almeno quelle con cui sono in rapporto – che l’aborto sarebbe un diritto. C’è una potenza, potestas, del corpo della donna che decreta ingiustamente di porre fine a questa vita che comincia. La radicalità è quella. Anche Rinalda ha sbagliato quando, a proposito dello scandalo Weinstein, ha detto al suo amico: «un po’ di ingiustizia anche a voi» e poi le dispiace di averlo detto. No, l’ingiustizia ci vuole per mettere fine a secoli e secoli forse millenni, di una cultura di prevaricazione sessuale degli uomini sulle donne o sui bambini o su altri uomini più deboli. È inevitabile l’ingiustizia.
Allora, questa radicalità Loretta l’ha messa nel suo discorso e ha messo anche gli ingredienti, perché in definitiva quello che le ha permesso di muoversi sono state delle relazioni, delle parole, delle esperienze. Non la competenza, la competenza era una sua passione, che è importantissima. Ma non è l’essenziale, l’essenziale è fare la cosa non omogenea a quella macchina là. Quindi il sito, chiedo alle governanti del sito di non avere il programma di impedire i casini, di farlo il casino, ecco. I casini proficui, naturalmente, non i battibecchi, gli antagonismi, bisogna sempre spostarsi, non farsi trovare. Essere da un’altra parte, cogliere di sorpresa chi interviene con le logiche meccaniche eccetera, farsi trovare da un’altra parte. Spostarsi, cogliere di sorpresa, invece di aggiustare. Un’ultima cosa. Non: portare il linguaggio della differenza. Bisogna essere la differenza.