Lo spiraglio necessario alla politica
Antonietta Lelario
25 Marzo 2024
Riprendo alcune riflessioni suscitate in me dall’intervento di Fanciullacci. Mentre raccontava la sua esperienza all’università, nell’incontro di Via Dogana sul Partire da sé, ho pensato che anche io nel rapportarmi alla scuola tento sempre di sottrarmi alle definizioni già date: «le si è imposto il modello aziendale, è diventata un progettificio, non c’è più la libertà che avevamo noi che ora siamo in pensione», si dice. Tutto vero; eppure, non c’è in questa lettura il passaggio che cerco.
Lui prova a concentrare lo sguardo sulla risposta soggettiva di chi abita l’università e cerca una risposta alla diffusa acquiescenza negli accomodamenti di una «società a responsabilità limitata». Ma non gli basta, anche lui cerca un passaggio e lo trova inseguendo la natura originaria dell’università, nata per perseguire l’ideale del sapere. Sta di fatto che inseguendo il desiderio, suscitato da quell’ideale, ha messo in piedi un’esperienza molto interessante che mi sembra necessiti di essere seguita con attenzione, anche da parte nostra, perché lì c’è politica trasformativa che non a caso è politica del desiderio.
Anch’io, incontrando alcune colleghe e ascoltando ciò che fanno sento che nella scuola non c’è solo adeguamento. Vedo che c’è un filo di desiderio che molte di loro continuano a tenere in mano per un capo, lasciando l’altro capo nelle mani dei ragazzi e delle ragazze, districandosi nella matassa delle incombenze e delle programmazioni che sembrano cancellare ogni invenzione e ogni possibilità di cogliere l’inedito per non perdere quel filo.
Vedendolo io riconosco una lingua attraverso la quale passa la fiducia e la gratitudine, una lingua che riapre lo spazio simbolico facendo apparire ciò che il discorso dominante occulta e che in noi urge perché è passaggio verso altro. Su questo tessuto che è profondamente politico ho visto nascere la relazione fra me e loro. La chiamo politica dello spiraglio, perché lì vedo apparire e agire il desiderio. In me è il frutto di una storia e in loro, che quella storia non l’hanno vissuta e spesso non la conoscono nemmeno? Mi chiedo, sempre lasciandomi guidare dal discorso di Fanciullacci, se nella scuola è l’amore per il sapere ciò che nutre quel desiderio e apre lo spiraglio necessario alla politica. Sì e no. Lo è quando quell’amore per il sapere riesce a nominare il reale con una lingua che ricostruisce nessi, che ci dà parole che cercavamo, che svela ciò che ci angustia o che vorremmo, che sa guardare la soggettività nelle parole, creando la possibilità di uno scambio, fra colleghi ma anche con i e le più giovani. Questa lingua è ciò che permette il riconoscimento reciproco.
Di questa lingua c’è una grande fame. Io ho visto il nutrimento che ne viene quando la usiamo, o la riconosciamo, non solo in me ma anche negli uomini che mi sono a fianco. Quando mio figlio trent’anni fa fece la tesi su Evelyn Fox Keller e Barbara McClintock, certamente anche influenzato da me e da Gian Piero, mio marito, trovava lì le risposte più avanzate per il cambiamento che la scienza cerca e che noi cerchiamo attraverso la scienza, se ci affidiamo al filo del desiderio. La stessa postura ho visto in Fanciullacci quando ha raccontato che era andato a rileggersi il libro di Diotima sul Partire da sé e l’ho apprezzata. Ho capito meno invece il suo bisogno di cercare un modello per definire la relazione con i colleghi, accomunati nella sua ricerca. Come lui però so che chiamarlo amicizia non corrisponde alla realtà. È anzi fuorviante. Il mio sforzo, anche con le amiche di altre associazioni con cui prendiamo iniziative sul territorio o con le mie stesse amiche della Merlettaia, non è stato quello di cercare un modello di relazione, anzi ho lavorato per pensare le relazioni ognuna nella sua unicità con il carico di affettività positiva e negativa che si porta dietro; invece, ho indirizzato tutti i miei sforzi per nominare ciò che facciamo e aumentare la consapevolezza del senso di ciò che si sta facendo. Cercando anche lì quella lingua del desiderio che non è questione solo di parole, ma di soggettività in gioco, di azioni, fatti, spazi simbolici, conflitti e domande lasciate aperte.