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I contributi di Giorgia Basch e di Donatella Franchi sulle pratiche artistiche femministe che diventano pratiche relazionali e aprono spazi di sperimentazione nuovi, insieme alle riflessioni riportate di Carla Lonzi sull’arte, mi hanno richiamato alla mente il fiorire negli anni settanta all’interno dei collettivi femministi di gruppi di donne che si occupavano in particolare di cinema, girando film, documentari e video artistici.

Un’esperienza intensa e fruttuosa che voleva documentare non solo le lotte, ma la politica di presa di coscienza, la ricerca di nuovi linguaggi di rappresentazione delle donne come soggetto e il desiderio di sovvertire l’ordine patriarcale. La pratica dell’autocoscienza, che è una pratica di relazione per eccellenza, ha qui avuto un ruolo fondamentale.

In quella fase le sperimentazioni filmiche e le teorie sulla creazione di un nuovo immaginario femminile andavano di pari passo. 

Una raccolta di questi video fu presentata all’interno della mostra che si tenne a Milano tra aprile e maggio 2019 dal titolo Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia*.

La grande Agnès Varda è un esempio. Fin dal suo debutto con il film La Pointe Courte, la regista pone in primo piano la forza delle relazioni, non solo nelle trame dei suoi film ma nella loro realizzazione, sia con le persone con cui lavorava sia con i soggetti che filmava: i suoi vicini di casa, i commercianti della sua via, le donne che animavano i cortei o il suo girovagare incinta fra gli abitanti del quartiere.

Il cinema anni settanta definito Feminist Avantgarde nasceva dall’autocoscienza, dalle teorie femministe e dalle pratiche di relazione e sviluppò una lunga ricerca e un acceso dibattito su come decostruire l’immaginario maschile. Da qui i film e le analisi della regista e critica Laura Mulvey che con il suo saggio Visual Pleisure and Narrative Cinema(Piacere visivo e cinema narrativo, 1975) intendeva mettere in discussione e modificare la rappresentazione del corpo femminile nel cinema e nella pubblicità. Sosteneva che in una società costruita sul dominio sessuale maschile il piacere di guardare era stato diviso tra l’attivo/maschile e il passivo/femminile. Di conseguenza lo sguardo maschile sulla figura femminile la modellava. Divenuto un testo di riferimento per le teorie del “male and female gaze” (sguardo maschile e sguardo femminile), il dibattito critico è arrivato fino ai giorni nostri.

Perché cambiare lo sguardo significa mettere in atto una relazione differente tra spettatrici e spettatori, tra chi guarda e chi è guardato, e non è reso oggetto.

A questo proposito una lezione raffinata e illuminante sul tema ci viene da Céline Sciamma nel suo film Ritratto della giovane in fiamme che a questo proposito in un’intervista a Emily Van Der Werff su Vox (rivista on line, 19/02/20) afferma: «Vedo il film come un manifesto sullo sguardo femminile. Vedo questo come una forte opportunità per creare nuove cose, nuove immagini, nuove narrazioni».

Come sempre anticipatrice, Agnès Varda, a proposito dello sguardo femminile, dà una sua originale interpretazione in Cléo dalle 5 alle 7 dove la protagonista in un gioco di sguardi, di specchi e di rispecchiamenti, confronta la percezione di sé e quella attribuitale dallo sguardo maschile fino a rompere, non solo simbolicamente, con questi continui rimandi a sé come oggetto, per incominciare a percepire se stessa come soggetto.

(*) Un importante archivio di quelle pratiche è il Centre Audiovisuel Simone de Beauvoir di Parigi che, creato nel 1982 da Carole Roussopoulos, Delphine Seyrig e Ioana Wieder, ha come scopo «la conservazione e la creazione di documenti audiovisivi sulla storia delle donne, i loro diritti, le loro lotte, le loro creazioni».