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La lingua è sempre politica e lo è ancora di più per chi di ne fa il proprio strumento di lavoro, uno strumento da maneggiare con molta cura.

Per noi giornaliste attiviste di GiULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome), è un impegno quotidiano da dodici anni, rispetto al quale abbiamo assunto una posizione precisa: la lingua deve rappresentare tutti e tutte, deve essere declinata secondo i generi, non può essere neutra e quindi nemmeno falsamente neutrale. A volte per questa nostra insistenza ci hanno dato delle fanatiche. Ma che la lingua sia politica ce lo ha rappresentato molto efficacemente, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, la nostra presidente del consiglio, definita non a caso dall’house organ Libero “L’Uomo dell’anno”. La prima cosa che ha fatto Giorgia Meloni appena si è insediata al governo è stato imporre il maschile sui documenti ufficiali per il suo incarico, mandando una circolare a tutti i media. Un modo per rimettere le cose a posto: rispetto all’orizzonte valoriale della destra che lei rappresenta, “Giorgia” è e deve rimanere un’eccezione, che va normalizzata attraverso le parole, rimettendo nei ranghi una leadership femminile che solo eccezionalmente, per meriti individuali, ha rotto il soffitto di cristallo. Pronto a richiudersi alla prima occasione. Ed è su questo “eccezionalismo”, anche linguistico, che si struttura tutta la sua narrazione. Durante il suo insediamento in Senato persino il suo braccio destro Davide Rampelli, uomo forte di Fratelli d’Italia, si è dovuto correggere, perché aveva usato il femminile, ormai entrato persino nella grammatica istintiva di un uomo di destra. E, giusto nell’ultimo congresso di Vox, l’hanno presentata come “la Presidenta”. Sarebbe comico se non fosse che questa pervicace volontà di ingranare la retromarcia della storia per imporre un punto di vista esplicitamente “reazionario” sulla lingua non si caricasse anche di un’enfasi bellicista: si combatte tra un noi e un loro sul corpo della lingua, per poi proseguire direttamente sui corpi fisici delle donne. Il femminile considerato svalutativo e il maschile come legittimazione politica sono le armi di riproduzione di massa delle discriminazioni di genere, a cui seguono l’enfatizzazione di parole come “madre” e “maternità”, usate in questo caso come corpi contundenti contro la libertà femminile, con tutto lo spiegamento della propaganda sul tema della natalità e della progressiva delegittimazione della legge 194 che espropria le donne della loro autodeterminazione per una superiore ragione di stato. 

Va detto che sulla questione dell’imposizione del maschile i media si sono in generale sottratti. Non la Rai, o per lo meno non tutte le reti e non tutte le trasmissioni, pur avendo l’azienda pubblica sottoscritto da anni documenti di policy interne che vanno nel senso un uso non sessista della lingua. La situazione, quindi, può certamente peggiorare. Ma vale la pena sottolineare anche i segnali di cambiamento. Nei nostri corsi di formazione per giornalisti all’inizio, dieci anni fa, ci capitava di fronteggiare irrisioni e aperte critiche quando parlavamo di sindache e ingegnere, ora succede che i colleghi anche uomini – sempre di più quelli che partecipano ai corsi sul linguaggio di genere – ci chiedano come convincere le ministre e le avvocate intervistate che si ostinano a preferire il maschile.

L’asprezza di toni però si è spostata direttamente sul terreno politico e poi di rimbalzo sui social. È stupefacente constatare quanto odio misogino si scateni sulle questioni del linguaggio, evidentemente vissute come una minaccia all’ordine patriarcale costituito, e come le attiviste e le giornaliste più impegnate su questi temi siano costantemente bersaglio di hate speech online. Abbiamo visto cosa ha provocato contro di lei l’evocare, da parte della sorella di Giulia Cecchettin, l’uso di una parola come “patriarcato”. E tutta la vicenda intellettuale e umana di Michela Murgia incarna esattamente la portata politica e la sua martirizzazione proprio per la sua battaglia sul linguaggio. O Vera Gheno, un’altra donna nel mirino degli hater. Per non parlare dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, vittima di shitstorm perché ha osato portare quelle istanze nelle sedi istituzionali.

Nel nostro lavoro di advocacy e di analisi sui come i media affrontano le questioni di genere, noi misuriamo non solo l’utilizzo delle parole “sbagliate”, ma anche il sistematico nascondimento del ruolo positivo delle donne della società, delle loro competenze, fino alla loro stessa esistenza al di fuori del cliché della vittima, della stuprata, dell’ammazzata. Da alcuni anni conduciamo una rassegna stampa mensile, intitolata Sui generis, dove proprio partendo da una suggestione di Michela Murgia, contiamo e dividiamo per genere le firme in prima pagina, gli editoriali e i commenti, le interviste, su una quindicina di giornali, per una settimana al mese. Le giornaliste rappresentano il 50% della forza lavoro, ma in prima pagina firmano quando va bene il 25% degli articoli, stessa percentuale per le donne intervistate. E si scende sotto il 20%, ultimamente anche sotto il 15%, per quanto riguarda i commenti e le analisi firmati delle donne. Questi dati che raccogliamo in modo del tutto empirico grazie al lavoro delle volontarie di GiULiA sono in totale sintonia con quelli ben più scientifici del Global Media Monitoring project, che ogni 5 anni dal 1995, sulla scorta di quanto raccomandato alla conferenza Onu di Pechino per quanto riguarda il ruolo dei media nel contrasto alla discriminazione delle donne, misura il grado di rappresentatività di genere dei media a livello globale, usando criteri quantitativi e qualitativi: quante notizie sulle donne ci sono, come se ne parla, e chi ne parla. Il tema della diversity, della pluralità delle voci per aprire a sensibilità, visioni e punti di vista differenti perché basati su differenze è diventato un tema di tendenza, ma la verità è che nei nostri media la diversity è ancora molto scarsa.

Un punto cruciale riguarda le esperte e le commentatrici interpellate da giornali e televisioni per analizzare la realtà: sono poche e dalle nostre rilevazioni durante la guerra sono ulteriormente diminuite. Così come erano diminuite anche in un altro momento di forte tensione, durante la pandemia. C’è il famoso titolo di Svetlana Aleksievič La guerra non ha un volte di donna. Per parafrasare si potrebbe dire che sui giornali non ha nemmeno voce di donna, con le dovute eccezioni. In questo modo si cancellano punti di vista e sensibilità diverse preziose. Per esempio ci sono ormai molte indagini che mostrano come quando si parla di temi economici le economiste di solito abbiano uno sguardo più lungo e insieme concreto, si soffermano di più sulle conseguenze sociali sulla lunga distanza, danno corpo sociale ai dati. Altri studi legati al Global Media Monitoring project suggeriscono che anche nella narrazione bellica la prospettiva delle reporter tende ad essere sensibilmente diversa da quella dei colleghi. 

Parole e guerra, quindi. La guerra moltiplica lo squilibrio di genere sul campo e sui media. Per sua natura è sessista, rimette in riga i ruoli del patriarcato, le donne diventano beni da difendere, corpi abusati. Agli uomini viene chiesto di spiegare e interpretare il conflitto in molti ruoli diversi: combattenti, signori della guerra, esperti e politici. Le donne, invece, sono raramente interpellate sulle loro opinioni riguardo al conflitto in generale e, se lo sono, di solito lo fanno dal punto di vista della donna o della vittima. Lo scenario sta cambiando: ci sono tantissime e bravissime inviate di guerra che in larga misura hanno una postura diversa da quella dei loro colleghi e molte di loro lo rivendicano. Nella narrativa maschile prevale ancora il linguaggio bellico, una retorica molto forte dell’apparato e della tattica militare, il mito dell’eroe, mentre generalmente le reporter fanno un racconto che demitizza la guerra e se mai illumina gli effetti dell’azione militare sulle persone e sui loro corpi, concentrandosi sulle singole storie che sopravanzano le statistiche o i calibri dei missili. Demitizzare significa fare fact checking: quando si è dato voce al protagonismo femminile esaltando le soldate curde di Kobane, le si è romanticizzate, le si è sessualizzate, erano tutte belle, erano tutte eroine. Ma come ha raccontato l’inviata Marta Serafini del Corriere della sera che è andata a intervistarle, molte di loro non erano davvero volontarie, non avevano nessuna voglia di andare a combattere ma erano in qualche modo obbligate ad andare in guerra dal contesto: si è preferito prendere quello che offriva la propaganda, perché era più “sexy”, senza verificare. 

Le reporter parlano dell’essere donna sul campo di guerra come di un vantaggio, più che un limite, perché apre porte di solito chiuse, in contesti tradizionali e misogini, apre quindi anche cuori e voci altrimenti non ascoltati. Basta vedere i reportage di Lucia Goracci dal Medio Oriente nello scenario dell’ultimo conflitto. Clarissa Ward, la famosissima giornalista della Cnn che per due volte è andata in missione in teatri di guerra mentre era incinta, ha detto chiaramente che anche la sua condizione ha cambiato la sua prospettiva e il suo punto focale mettendola nei panni delle donne incinte che non hanno scelta e vivono in quei contesti. Per questo è stata duramente criticata. Ward inoltre è andata oltre la pura cronaca nel 2016 di fronte all’assemblea dell’ONU ha chiesto di smettere di raccontare in modo superficiale il conflitto in Siria, paragonandolo all’inferno sulla terra e concludendo che in Siria, di fronte a quella distruzione, non ci sarebbero potuti essere vincitori. Esattamente un punto di vista che ritroviamo nei reportage di un’altra famosa inviata di guerra, Francesca Mannocchi. 

Volendo forzare una similitudine, la sensibilità e l’attenzione alle cause, ai processi, alle conseguenze, invece che al singolo fatto avulso dal contesto che lo origina, è una pratica di giornalismo proattivo che mettiamo in campo anche quando parliamo di violenza di genere e cerchiamo di uscire dal frame narrativo dell’atto singolo inspiegabile, del raptus improvviso, per illuminare un femminicidio come un’azione che trova le sue spiegazioni solo all’interno di un sistema di relazioni oppressive. 

Tante bravissime giornaliste di guerra, preparatissime, che conoscono nei dettagli le storie e la storia, molto spesso anche la lingua dei posti in cui operano, riempiono, per fortuna, le pagine interne dei giornali ma solo saltuariamente rompono il muro della prima pagina, del commento e dell’analisi. C’è ancora quindi molto lavoro da fare per colmare questa assenza. 

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024