Condividi

Da il manifesto – «Possiamo aprire il presente all’imprevisto, possiamo fare la differenza». Così scrive Giulia Siviero, in chiusa alla introduzione del suo volume Fare femminismo (Nottetempo, pp. 181, euro 16,50). Più che una constatazione augurale, l’autrice sceglie di aprire il suo ragionamento sulla pluralità di pratiche e luoghi della politica delle donne che muovano da quel verbo declinato all’infinito scelto nel titolo. Cui se ne aggiungono molti altri, dal generare all’occupare, dal disertare allo spiazzare.

Legati a episodi storici, prese di parola e mutamenti di contesto, i tagli riferiti dall’autrice attingono al “fare” come senso libero di una esperienza attraversata. Ché parla ai (e dei) corpi e porta con sé la direzione anche di un disfare. Operazione genealogica e non archeologica, come ricorda Siviero fin dalle prime pagine, si restituisce una tessitura tanto più utile in questo tempo di rimozione ed equivalenza. Il metodo che Siviero utilizza per significare l’intreccio, storico e politico, è di una parola sessuata che emerge, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta (anche se gli andirivieni svettano di qualche secolo, quando occorre), in molti modi e continenti.

Ci sono storie, note e meno note, intorno alle parole (e alle lotte) che sono servite per scoprire e appropriarsi dei corpi, del proprio vissuto. Come quella di Matilde Maciocia che il 24 novembre del 1971 a Piazza Navona – durante una manifestazione per l’abrogazione del reato di aborto – racconta le condizioni per cui a vent’anni ha scelto di abortire, segnalando per un verso la brutalità della mammana cui si era rivolta e, d’altra parte, la violenza medica insieme alla necessità di rompere il «muro di omertà» e contro un sistema ingiusto. Siviero descrive, con sagacia e pazienza, il crocicchio di luoghi e nomi che hanno trasformato, con radicalità, il modo stesso di stare nel mondo: dall’autocoscienza, alle pratiche di self-help e dell’iter – non solo legislativo e non solo in ambito italiano – dell’aborto, dei processi per stupro e di molti altri temi.

«Generare lotta» è sottofondo di tutto il volume, e gli episodi riportati dall’autrice sono più che semplici aneddoti: per esempio ciò che accade il 13 settembre del 1968 al Congresso della lega tedesca degli studenti socialisti, a Francoforte sul Meno. Helke Sander, unica donna autorizzata a parlare, davanti ai compagni delegati denuncia la struttura sessista del movimento studentesco e propone di discuterne. La risposta è che un compagno riprende rapidamente la parola. In quel momento Sigrid Rüger, arrivata anche lei al congresso – quasi al termine della sua gravidanza e assistendo all’ennesimo tentativo di seppellire un confronto aperto – prende i pomodori che aveva con sé per la sua cena, si alza e inizia a lanciarli. Verso i delegati, gridando: controrivoluzionari.

In che modo, oggi, luoghi pubblici e domestici possano leggersi in una prospettiva interdisciplinare – politica e femminista – lo affronta il volume Gli spazi delle donne. Casa, lavoro, società a cura di Michela Bassanelli e Imma Forino (DeriveApprodi, pp. 202, euro 18). Storia, arte, sociologia, architettura, filosofia ed economia, sono i campi, presenti e mescolati, cui rispondono le autrici che avviano le rispettive riflessioni critiche. Spazio è qui parola cangiante e ricca di molteplici significati che però non possono saltare corpi ed esperienze: fisico, virtuale, tra forza collettiva e lotta politica, il corpo sessuato è, anche e non solo, luogo dell’agire e di relazioni con altri. Dall’idea della «casetta eugenica» di marca fascista (sviluppato da Annalisa Avon) alla «stanza per sé» (discusso da Carola D’Ambros), si arriva a ulteriori indagini come quella relativa alla casa intesa come spazio di lavoro produttivo e riproduttivo che, almeno dal tardo Settecento, è stato condizionato da un processo di femminilizzazione (come spiega Raffaela Sarti). Tutti molto utili ed efficaci, i testi inseriti ne Gli spazi delle donne raccontano della metamorfosi di gerarchie e ruoli che dalla modernità arrivano fino alle negoziazioni contemporanee, carichi di cura compresi (come ricorda Sandra Burchi) e alla disciplinazione sociale della sessualità (nel contributo di Carlotta Cossutta).

Prezioso è anche il volume a più voci curato da Paola Stelliferi e Stefania Voli: Anni di rivolta. Nuovi sguardi sui femminismi degli anni Settanta e Ottanta (Viella, pp. 314, euro 29), inserito nella bella collana «Storia delle donne e di genere», il cui punto di avvistamento più disciplinare nasce dal fermento globale provocato intorno a Ni una menos e il #Metoo, approfittando del cinquantesimo anniversario del primo manifesto di Rivolta Femminile comparso sui muri di Roma e Milano nel luglio del 1970.

Se la pandemia ha modificato quanto la Società italiana delle storiche si era prefissata, è importante che questo libro ritessa gli esiti di quante, nella primavera del 2020, avevano salutato con grande partecipazione la call for papers lanciata dalla Sis, consentendo di osservare in profondità alcuni momenti cruciali. A cominciare dall’intervento di Marta Panighel che si occupa della esperienza interna alla rivista Effe (1973-1982) e alla sorellanza come rappresentazione dell’Altra, proseguendo con il brillante contributo di Elisa Bellè sul femminismo trentino (di cui si era diffusamente occupata nel suo volume del 2021 per Rosenberg&Sellier, L’altra rivoluzione) proseguendo un lavoro ben documentato di costruzione della memoria pubblica che scardina la gerarchia «centro-periferia», collocando l’esperienza di Trento in una rete di relazioni, italiane e non. Altrettanto utile è il saggio di Anastasia Barone, sui consultori romani prima e dopo la legge 405/1975, e quello di Elena Biagini, concernente la soggettivazione politica delle lesbiche.