Licenza di sparare sui civili in attesa di cibo
Gianluca Mercuri
27 Giugno 2025
Dal Corriere della Sera
«Dalle conversazioni con ufficiali e soldati è emerso che i comandanti hanno ordinato alle truppe di sparare contro le folle per allontanarle o disperderle, anche se era chiaro che non rappresentavano una minaccia». È la sconvolgente rivelazione di Haaretz, che ha pubblicato le testimonianze di una serie di militari israeliani in un reportage dal titolo urticante, “It’s a Killing Field”: IDF Soldiers Ordered to Shoot Deliberately at Unarmed Gazans Waiting for Humanitarian Aid, “È un killing field [campo di uccisioni]: i soldati israeliani hanno ricevuto l’ordine di sparare deliberatamente contro i gazawi disarmati in attesa di aiuti umanitari”. A queste rivelazioni si aggiungono quelle sui contractor americani, pagati per demolire le case dei palestinesi.
Le stragi quotidiane che avvengono da settimane nei luoghi di distribuzione degli aiuti sono note, ma le testimonianze raccolte dal giornale israeliano – testimonianze di importanza eccezionale, perché la presenza dei giornalisti a Gaza non è ammessa e perché si tratta di fonti militari – rivelano le dimensioni inimmaginabili di quella che un soldato definisce «la totale rottura dei codici etici delle Forze di Difesa Israeliane (l’acronimo IDF sta per Israel Defense Forces) a Gaza». La situazione è talmente degenerata che, scrive Haaretz, l’Avvocato generale militare ha incaricato la “Commissione di valutazione dei fatti dello Stato Maggiore dell’IDF” – l’organismo che esamina le potenziali violazioni – di indagare sui sospetti crimini di guerra.
Tutto è precipitato da fine maggio, quando la distribuzione degli aiuti alla popolazione è stata definitivamente sottratta alle agenzie umanitarie internazionali e affidata alla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation (GHF), un ente le cui origini e i cui finanziamenti restano opachi: «Si sa che è stata creata da Israele in coordinamento con evangelici statunitensi e appaltatori di sicurezza privati», scrive Haaretz. Questa svolta si è incrociata con quella militare e umanitaria, che negli ultimi tre mesi ha visto l’esercito israeliano emettere ogni giorno ordini di evacuazione che costringono la popolazione a spostarsi: 680mila negli ultimi tre mesi, 242mila solo nell’ultimo mese. In questa fase, l’82% per cento del territorio è off limits per i suoi abitanti, che sono ammassati nel restante 18%. Vuol dire che oltre due milioni di persone sono costrette a vivere in 65 chilometri quadrati, in condizioni che favoriscono la continua diffusione di malattie. E sono ridotte alla fame.
In questo quadro, la GHF gestisce quattro centri di distribuzione di cibo – tre nel sud della Striscia e uno nel centro – il cui personale è composto da operatori americani e palestinesi ed è protetto dall’IDF a qualche centinaio di metri di distanza. Più vicini ai centri si muovono invece i membri di Abu Shabab, la milizia legata all’Isis che gli israeliani hanno cooptato per scalzare Hamas.
Ogni giorno, migliaia o decine di migliaia di gazawi arrivano in questi centri per ricevere cibo: nonostante israeliani e americani, nel cacciare le agenzie Onu, avessero garantito che la distribuzione sarebbe stata ordinata, avviene tutto nel caos, con la folla che si accalca a ridosso dei siti, aperti in genere per un’ora al mattino ma a volte, e senza preavviso, al pomeriggio, cosa che contribuisce al disordine. Secondo le testimonianze dei militari israeliani, «l’IDF spara alle persone che arrivano prima dell’orario di apertura per impedire loro di avvicinarsi, o di nuovo dopo la chiusura dei centri, per disperderle».
È per descrivere questa situazione che un soldato ha usato l’espressione “killing field”, che ha motivato così:
«Vengono trattati come una forza ostile: niente misure di controllo della folla, niente gas lacrimogeni, solo fuoco vivo con tutto ciò che si può immaginare, mitragliatrici pesanti, lanciagranate, mortai. Apriamo il fuoco la mattina presto se qualcuno cerca di mettersi in fila da qualche centinaio di metri di distanza, e a volte li carichiamo da vicino. Ma non c’è alcun pericolo per le forze armate. Non sono a conoscenza di un solo caso di risposta al fuoco. Non ci sono nemici, non ci sono armi».
Le altre testimonianze raccolte da Haaretz confermano o aggravano questo quadro:
«Gaza non interessa più a nessuno. È diventato un luogo con un proprio insieme di regole. La perdita di vite umane non significa nulla. Non è nemmeno uno “sfortunato incidente”, come si diceva una volta» (un riservista che questa settimana ha completato un turno di servizio nella Striscia settentrionale).
«Lavorare con una popolazione civile quando il tuo unico mezzo di interazione è aprire il fuoco è altamente problematico, per non dire altro. Non è eticamente accettabile che le persone debbano raggiungere, o non riescano a raggiungere, una zona umanitaria sotto il fuoco di carri armati, cecchini e colpi di mortai. Una brigata da combattimento non ha gli strumenti per gestire una popolazione civile in una zona di guerra. Sparare con i mortai per tenere lontana la gente affamata non è né professionale né umano. So che tra loro ci sono agenti di Hamas, ma ci sono anche persone che vogliono semplicemente ricevere aiuti. Come Paese, abbiamo la responsabilità di garantire che ciò avvenga in modo sicuro» (un ufficiale che presta servizio di sicurezza in un centro di distribuzione).
Qui si aggiunge un dettaglio tragicamente rivelatore sull’attività degli appaltatori assunti a Gaza per aiutare le forze di occupazione, fornito da un veterano israeliano:
«Oggi, ogni contractor privato che lavora a Gaza con attrezzature ingegneristiche riceve 5.000 shekel (circa 1.500 dollari) per ogni casa che demolisce. Stanno facendo una fortuna. Dal loro punto di vista, ogni momento in cui non demoliscono case è una perdita di denaro, e le forze armate devono assicurare il loro lavoro. Gli appaltatori demoliscono dove vogliono lungo tutto il fronte».
In questo scenario da far west, i contractor «si muovono come sceriffi». La campagna di demolizione li porta spesso vicino ai punti di distribuzione o lungo i percorsi utilizzati dai camion degli aiuti. Le sparatorie scoppiano in molti casi per proteggere queste attività e queste persone. «Queste sono aree in cui i palestinesi possono stare, siamo noi che avvicinandoci scegliamo di metterci in pericolo. Quindi, per un appaltatore che vuole abbattere una casa per guadagnare altri 5.000 shekel, si ritiene accettabile uccidere persone che cercano solo cibo».
Le testimonianze convergono nell’indicare come maggiore responsabile di questa situazione un alto ufficiale, il generale di brigata Yehuda Vach, comandante della Divisione 252 dell’IDF. Haaretz ricorda di avere già riportato «come Vach abbia trasformato il corridoio di Netzarim in un percorso mortale, abbia messo in pericolo i soldati sul campo e sia stato sospettato di aver ordinato la distruzione di un ospedale a Gaza senza autorizzazione». Ora, un ufficiale della divisione afferma che Vach ha deciso di disperdere gli assembramenti di palestinesi in attesa di aiuti aprendo il fuoco: «Questa è la politica di Vach, ma molti comandanti e soldati l’hanno accettata senza fare domande».
Un soldato carrista della riserva, che prestato servizio di recente nella Divisione 252, conferma come funziona questa “procedura di dissuasione” per disperdere i civili:
«Gli adolescenti che aspettano i camion si nascondono dietro i cumuli di terra e si avventano sui mezzi quando passano o si fermano nei punti di distribuzione. Di solito li vediamo da centinaia di metri di distanza; non è una situazione in cui rappresentano una minaccia per noi. In un caso, sono stato istruito a sparare una granata verso una folla radunata vicino alla costa. Tecnicamente, dovrebbe essere un fuoco di avvertimento, per far indietreggiare le persone o impedire loro di avanzare. Ma ultimamente sparare granate è diventata una pratica standard. Ogni volta che spariamo, ci sono vittime e morti, e quando qualcuno chiede perché è necessaria una granata, non c’è mai una buona risposta. A volte, il solo fatto di porre la domanda infastidisce i comandanti».
Nel suo caso, aggiunge il soldato, un gruppo ha cominciato a fuggire dopo il lancio della granata ma è stato raggiunto da altro fuoco: «Se doveva essere un colpo di avvertimento, e li vediamo correre indietro verso Gaza, perché sparare su di loro? A volte ci dicono che si stanno ancora nascondendo e che dobbiamo sparare nella loro direzione perché non se ne sono andati. Ma è ovvio che non possono andarsene, se nel momento in cui si alzano e corrono apriamo il fuoco».
Il soldato dice che questa è diventata una routine: «Sai che non è giusto. Senti che non è giusto, che i comandanti qui stanno manipolando le regole. Ma Gaza è un universo parallelo. Si va avanti velocemente. La verità è che la maggior parte non si ferma nemmeno a pensarci».
All’inizio di questa settimana, aggiunge il giornale, i soldati della Divisione 252 hanno aperto il fuoco su un incrocio dove i civili stavano aspettando i camion degli aiuti: «Un comandante sul posto ha dato l’ordine di sparare direttamente al centro dell’incrocio, causando la morte di otto civili, tra cui alcuni adolescenti. L’incidente è stato portato all’attenzione del capo del Comando Sud, il maggior generale Yaniv Asor, ma finora, a parte una revisione preliminare, non ha preso provvedimenti e non ha chiesto spiegazioni a Vach sull’alto numero di morti nel suo settore».
Un altro ufficiale della riserva che comandava le forze nell’area conferma così l’andazzo:
«Ero presente a un evento simile. Da quello che abbiamo sentito, sono state uccise più di dieci persone. Quando abbiamo chiesto perché avessero aperto il fuoco, ci è stato risposto che era un ordine dall’alto e che i civili avevano rappresentato una minaccia per le truppe. Posso dire con certezza che non erano vicini alle truppe e non le mettevano in pericolo. È stato inutile: sono stati uccisi e basta, per niente. Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. Ci è stato costantemente detto che a Gaza non ci sono non combattenti, e a quanto pare questo messaggio è stato recepito dalle truppe».
Un alto ufficiale denuncia la crescente anarchia degli alti comandanti sul campo rispetto ai vertici dello Stato Maggiore. E le sue parole tirano le somme di questa catena di incidenti, che non è casuale, che non è voluta dai civili stremati dalla fame, dalle continue deportazioni e dal sovraffollamento negli accampamenti:
«Il mio timore più grande è che gli spari e i danni ai civili a Gaza non siano il risultato di una necessità operativa o di una scarsa capacità di giudizio, ma piuttosto il prodotto di un’ideologia sostenuta dai comandanti sul campo, che trasmettono alle truppe come piano operativo».
Un’altra fonte militare racconta una recente riunione del Comando Sud, in cui è emerso che le truppe hanno iniziato a disperdere la folla usando proiettili di artiglieria:
«Parlano dell’uso dell’artiglieria su un incrocio pieno di civili come se fosse normale. L’aspetto morale è praticamente inesistente. Nessuno si ferma a chiedersi perché decine di civili in cerca di cibo vengano uccisi ogni giorno».
Ancora una testimonianza, ancora un alto ufficiale:
«Il fatto che il fuoco vivo sia diretto contro la popolazione civile – sia con l’artiglieria, i carri armati, i cecchini o i droni – va contro tutto ciò che l’esercito dovrebbe rappresentare. Perché le persone che raccolgono cibo vengono uccise solo perché hanno oltrepassato la linea, o perché a qualche comandante non piace? Perché siamo arrivati al punto in cui un adolescente è disposto a rischiare la vita solo per togliere un sacco di riso da un camion? Ed è a lui che spariamo con l’artiglieria?».
Haaretz racconta che i tentativi del Comando Sud dell’IDF di occultare o minimizzare le stragi
quotidiane stanno incontrando l’opposizione dell’Ufficio dell’Avvocato Generale Militare, un cui funzionario sottolinea che «l’affermazione che si tratta di casi isolati non è in linea con gli incidenti in cui le granate sono state lanciate dall’aria e i mortai e l’artiglieria sono stati usati contro i civili. Non si tratta di poche persone uccise, stiamo parlando di decine di vittime ogni giorno».
A Gaza non ci sono controlli, non ci sono osservatori internazionali, non ci sono giornalisti. Ci sono i soldati, e il loro racconti. Fuori da Gaza c’è il mondo, ci siamo noi. A parti invertite, e per fortuna, non lo consentiremmo. Così, non ci interessa e lo consentiamo.
Gli israeliani possono essere fermati solo dalle loro coscienze.
(Corriere della Sera, 27 giugno 2025, pubblicato col titolo “Questa cosa chiamata uccidere persone innocenti è stata normalizzata. I racconti choc dei soldati israeliani a Gaza”)