Lì dove mi hai lasciato, lì non mi trovi più
Diana Sartori
7 Aprile 2024
Impossibile dimenticare nel ritornare sulla pratica del partire da sé la lapidaria formulazione di Luisa Muraro: “Partire da sé e non farsi trovare…” C’erano i puntini di sospensione. Adesso che ho riguardato mi sono balzati agli occhi: una premonizione, attesa, apertura, avvertimento, un viatico per una partenza, un segnale per un tempo in avanti, ma marcava i puntini in un titolo, cosa editorialmente inconsueta. Ci volevano proprio però, lo si capiva bene dal testo, e ora lo capisco di più ed è nello spazio e nel tempo dopo quei puntini che è mi venuto ciò che dico, o chiedo. Partire da sé e non farsi trovare, sì e se poi non ti si trova più? Detto anche peggio, se poi capita che a forza di non farti trovare ti senti che non ti trova più nessuno?
Solitamente sono riflessiva e una ricordante, ho memoria storica e teorica, nello scrivere sto cauta fino alla paralisi, ma in questa occasione il partire da sé mi ha fatto un brutto o bello scherzo ed è venuta fuori così. Mi sono anche un po’ spaventata poi, sembrerò proprio non aver capito niente, o persa. Ma a qualcuna è risuonato, ed ecco adesso provo ad articolare, sottolineo solo provo, perché come mi è stato scritto in chat non ricordo da chi, dietro c’è un oceano, e ci sono nel bel mezzo, spero non proprio persa.
Non sto a elogiare i meriti del partire da sé o dei vantaggi della sua pratica soggettivi e politici. Che quanto a me le devo tutto quel cui della mia singolare e condivisa esperienza di stare al mondo sono riuscita a vivere e soprattutto a dare senso e parola. Da tempo lontano e preponderante ormai. Qui non ce ne è bisogno, sì altrove invece e tanto. Ma qui e ora che lo si riprende appunto dopo tanto tempo e al presente, dove c’è altrove e altrimenti.
Quel senso di irreperibilità, il non essere più trovate, lo nomino colpita dallo scarto del significato tra quel che tra noi non abbiamo bisogno di spiegare del partire da sé e invece quanto ne è stato inteso e recepito fin da sempre direi, e ora ancor più nel perenne conflitto di senso che investono il femminismo e le sue pratiche.
Oggi lo dico in un contraccolpo soggettivo che avverto consolidarsi quasi in un muro di mattoni di fraintendimenti, interpretazioni fuorvianti, intenzionali misinterpretazioni, punti ciechi, parole e atti mancati, incontri disattesi, cadute di efficacia che mi hanno riportata a un sentimento di estraneità e isolamento dal corso del mondo che è quello che pativo prima di incontrare con il femminismo proprio la pratica di partire da sé.
Devo però premettere delle circostanze soggettive che contengono già una risposta, che è anche una spiegazione e un’obiezione, perché vengo, forse esco, da un periodo di anni in cui ho trascurato la cura della pratica politica delle relazioni per dedicarmi alla cura di mia madre e di mio padre e accompagnarli alla morte. Non è stato isolamento, altre relazioni vitali mi hanno sostenuta ma in diverse dimensioni, non quella del registro politico e della significazione simbolica. Da questo allontanamento parlo, e lo faccio nel momento in cui sono tornata in un contesto di relazione politica dove anche questa esperienza fidavo sarebbe stata riconosciuta, sarei stata trovata.
Suppongo sia disabituata e ho sentito lo scarto, perché quel senso di estraneità a come gira il mondo è prevalso in questo lungo passaggio della mia vita, su quella giostra non mi sono fatta trovare e non mi si trova. Certo fortunatamente la giostra non è il mondo, ma la sua musica d’organetto fa girare la testa in tondo persino se stai coi piedi a terra nella materiale vita e ti tocca fare parecchi esercizi di disattenzione per scacciare il ritornello che ti risuona nelle orecchie. I suoi richiami non li senti nemmeno più, però forse diventi meno attenta e un poco sorda.
Fuor di metafora, il non farsi trovare può prendere la mano, connaturarsi, e mettere a rischio la pratica del partire da sé, che di suo è già rischiosa. Lo avvertiva ripetutamente il libro di Diotima che giustamente parlava della “sapienza” di una pratica che destituisce le pretese illusorie di identità, sovranità, autorialità, controllo del soggetto. E altrettanto avvertiva di quanto l’implicazione di sé nel mondo, nelle relazioni, nel tessuto materiale, simbolico, conscio e inconscio della realtà, fosse insieme un attivo punto di leva e nel contempo l’esposizione a una condizione di passività e dipendenza riconosciuta, ma non meno patita e rischiosa. Non c’era però solo questo, perché c’erano anche fiducia, leggerezza, apertura. Ora direi: scioglimento e legame, sapienza di sciogliersi e legarsi.
Il partire da sé per sua natura non si fa da sé, né in solitudine né va avanti da solo, è una pratica, appunto, e si lega ad altre pratiche. In quel libro Angela Putino diceva della cura di sé, Chiara Zamboni del materialismo dell’anima, e tutto indicava soprattutto la pratica delle relazioni.
Quest’ultima, anch’essa peraltro delicata e tutt’altro che confermante, è probabilmente il contrappeso più valido allo sbilanciamento, alla vertigine o al pericolo di dissolvimento indistinto che lo sporgersi nella pratica del partire da sé può comportare. Riconoscere la dipendenza e secondarietà che ci segnano e vincoli che ci annodano, le voci e i richiami che ci attraversano non è farci trovare dove ci si aspetta che siamo, e nemmeno sciogliersi da tutto e cadere dal tutto pieno nel vuoto, c’è la “libertà dai fittizi legami di fedeltà” con le parole di Virginia Woolf. Da quelli fittizi, il che comporta riconoscerne di reali e legarsi ad altri. Nella mia esperienza questo è stato il femminismo, con le sue tante altre parole e pratiche, un altro ordine di riferimento simbolico e di rapporti che ci rimette, non ci consegna né ci sottrae, al mondo. Quando c’è equilibrio, e a volte non lo si trova.
Ecco mi sono dilungata e ancora temo non spiegata. All’incontro di Via Dogana mi è stato chiesto di fare degli esempi di quel sentimento di non essere più trovata a forza di non farmi trovare. Forse ora ho individuato meglio come fosse da collegarsi allo squilibrio per eccesso di sottrazione, una sorta di coazione a negarsi e a negare: non lì, non questo, non così, non è quello. Magari questo è rovesciamento nella posizione identitaria, magari in quella isterica, magari è lo stesso e come che sia è perdita di mondo, ed è solo mia mi auguro. Gli esempi sarebbero meglio, sì. Ce ne sarebbero moltissimi, che non so quante volte è successo, e quando più si presentava una qualche forma di riconoscimento, quando il corso del mondo pareva venire incontro. E anche quando altre donne invitavano all’appuntamento.
Il più recente: quel che è avvenuto con la morte di Giulia Cecchettin. È stato segnalato quanto sia stato un evento simbolicamente rilevante, c’è stato, o preferisco dire è stato messo in scena, un riconoscimento simbolico di massa. Dalle prime parole della sorella si sono poi alzate spontaneamente tante voci e urla e baccano come non prima così. Quello che Chiara Zamboni ha chiamato il sorriso dell’inconscio mi è durato un attimo, nemmeno sufficiente a farmi aderire. Subito mi sono sentita che mi scollavo, e a mano a mano che la cosa montava così cresceva il mio moto di sottrazione. Poi sono venute le manifestazioni organizzate istituzionalmente, le circolari a scuola che richiedevano il minuto di urla, i manifesti richiesti e appesi in bell’ordine che invitavano a distruggere tutto, e le parole giuste che mi suonavano false, e quelle sbagliate che parevano giuste, e io non c’ero e non volevo esserci. Ma come proprio tu? Ma è qui, è questo, è ora non vedi, non senti? Ti perdi l’occasione! Persa?