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Da L’Altravoce il Quotidiano

Ci sono nella vita di una donna esperienze indimenticabili di cui, col tempo, si può sentire la necessità di darne conto, scrivendone. È quello che fa Annie Ernaux con L’evento in cui, dopo averci girato attorno per anni, opposto “resistenza” senza smettere di “pensarci”, decide di raccontare il suo aborto clandestino di giovane studentessa universitaria. All’inizio della narrazione non è sicura di voler andare fino in fondo, ma strada facendo diventa determinata ad andare avanti, convinta che si debba scrivere di “qualsiasi cosa vissuta” perché “non ci sono verità inferiori”. Scrive di quella esperienza per non “oscurare la realtà delle donne” e anche se “la clandestinità”, in cui ha vissuto l’aborto, appartiene al passato, a lei non “sembra un motivo valido per lasciarla sepolta”. “E proprio perché nessun divieto pesa più sull’aborto” può “affrontare, in tutta la sua realtà, questo evento indimenticabile”, che per la prima volta la fa sentire in “una catena di donne attraverso cui passavano le generazioni”. Si immerge nel tempo e nel contesto di quella esperienza sconvolgente con la sensazione di “raggiungere la vita passata”, “come se fosse lì”. L’agenda e il diario di quei mesi di fine 1963 inizio 1964 le danno “le prove necessarie alla ricostruzione dei fatti” in una Francia dove, come in Italia, l’aborto era reato, punibile con il carcere, come pure la propaganda anticoncezionale. Sin dall’adolescenza attraverso i romanzi e i pettegolezzi di quartiere, aveva acquisito “vaghe conoscenze sui metodi che venivano utilizzati, il ferro da maglia, il decotto di prezzemolo, le iniezioni di acqua saponata, l’equitazione”. Sapeva però che la soluzione migliore consisteva nel trovare uno di quei medici detti “cucchiai d’oro”, a cui si rivolgevano donne danarose per abortire in sicurezza, e che a quelle come lei, “senza soldi”, “senza le giuste conoscenze”, non restava che cercare “una di quelle donne che venivano chiamate con patetico nome di ‘fabbricanti d’angeli’”. A confortarla c’era “il pensiero che prima” di lei “molte altre avevano fatto ciò che” si “apprestava a fare”. Non pensava che avrebbe potuto morire. Disperata per non sapere a chi rivolgersi, tenta di procurarsi l’aborto da sola con un ferro da maglia. Attraverso la scrittura cerca di rivivere i sentimenti di incredulità, solitudine, ansia, orrore, infelicità, paura, che l’hanno accompagnata in quella esperienza, in cui ha rischiato di morire per emorragia. Trovata la “studentessa sposata che aveva abortito due o tre anni prima, rimettendoci quasi la pelle” e che le presta i soldi per abortire, trova la “signora”, a cui non ha mai smesso di pensare con gratitudine. “È a lei che dovrei dedicare questo libro”.

Il solo a non sembrare interessato era colui di cui era incinta, come se la sua sessualità non c’entrasse affatto. L’aveva lasciata a “sbrigarsela da sola”. Pensandoci comprende che avrebbe dovuto dedurne che non provava più nulla per lei, ma ammette che, pur immaginando di essersene accorta, non aveva “la forza di lasciarlo, di aggiungere alla disperata ricerca di un modo per abortire anche il vuoto di una separazione”. Rivive lo “sconcerto” nell’aver sentito dentro di sé di “essere divenuta una delinquente” nell’ ambiente universitario in cui era immersa. Riascolta parole violente e di disprezzo che l’hanno ferita. E poi l’immagine della camera dell’aborto che “conserva il ricordo delle ragazze e delle donne salite fin lì a farsi trafiggere da una sonda” e lei che piange e urla di dolore. Il racconto di “quell’esperienza umana totale” ci dice come l’aborto per una donna non è mai stato e non è un diritto astratto né un’ideologia, ma una necessità, vissuta attraverso il suo corpo le sue sensazioni e pensieri, che con Annie Ernaux diventano scrittura.