Les plages d’Agnès un film di Agnès Varda (Fr, 2008, 100’).
Silvana Ferrari
10 Novembre 2019
“Les plages d’Agnès” così titola il suo film-autoritratto la regista Agnès Varda per significare l’importanza dei luoghi che segnarono la sua infanzia, la sua adolescenza, le prime imprese di fotografa, la successiva carriera di regista con la creazione della casa di produzione Ciné-Tamaris, e la sua vita sentimentale e familiare. Sono le spiagge del Nord – quelle belghe; le spiagge del Sud – Sète in particolare della sua giovinezza; le coste della Corsica nei suoi viaggi da studentessa; le spiagge di Parigi lungo la Senna e quella artificiale creata nella sua via; le spiagge dell’Ovest sull’Atlantico – Noirmoutier in particolare, frequentate con il marito Jacques Demy e i figli; quelle americane di Los Angeles e Venis Beach.
Con apparente levità la regista evoca i grandi eventi storici che hanno segnato e influenzato la sua esistenza: la seconda guerra mondiale, la fuga dal Belgio, la persecuzione degli ebrei e la caccia e cattura dei bambini ebrei, la guerra di Algeria, il maggio francese, il movimento dei neri negli USA e il femminismo.
Per esprimere l’importanza della fotografia nella sua vita e nella sua carriera di artista, il suo racconto parte dalle foto d’infanzia dall’album della madre che dispone sulla sabbia, in mezzo all’erba secca delle dune; ci sono poi le foto di Sète e del suo porto; la sua tessera di studentessa; quelle del festival di Avignone al suo debutto come fotografa; le foto riprese nei suoi viaggi in Cina e a Cuba.
Passato e presente si mescolano quando ci riporta con un viaggio in barca nel porto di Sète o a visitare la sua casa d’infanzia a Bruxelles o a rivisitare Pointe Courte e incontrare le comparse del suo primo lungometraggio del ’54 che la rese celebre fra cineasti e critici della Nouvelle Vague.
Come parte della sua vita scorrono le immagini dei film realizzati creando una forma di retrospettiva personale: quelli di fiction e i documentari e i film d’inchiesta insieme al repertorio privato di immagini e di video sulla sua famiglia e le sue amicizie più intime.
Dai suoi racconti e dalle immagini emerge con chiarezza il senso della sua intera opera cinematografica: l’invenzione che ha caratterizzato il suo cinema e la sua intera produzione di artista e di fotografa. Saper riprodurre il reale e inserirlo in un’opera di fiction e viceversa. Realtà e immaginario in una versione nuova da lei chiamata “cinécriture”.
Nel film è lei sola in scena e si rappresenta senza abbellimenti e per dare il senso del reale c’è il rumore delle onde, l’uso della luce naturale, la sua troupe all’opera che procede con la messa in scena che diventa essa stessa una parte delle sue installazioni artistiche dove l’autorappresentarsi scherza con il simbolismo degli specchi.
Il film è girato su una dimensione giocosa per descrivere il mondo interiore di Agnès Varda e quello delle persone che ama e di cui vuole parlare. Tutto appare artigianale e improvvisato, una scelta che nasconde una pianificazione attenta ad ogni movimento di macchina, ad ogni ripresa di scena.
La rappresentazione del passato diventa una ri-presentazione attraverso una foto o un’immagine, un oggetto che fa risorgere i ricordi e qui procede, nella realizzazione del suo documenteur – una parola di sua invenzione -, dove tutto è vero, ma in forme sempre diverse e inusuali.