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da Diotimafilosofe.it

Recensione ad Antonietta Potente, M. Milagros Rivera Garretas, Quando Lei viene. La scrittura ispirata, traduzione dallo spagnolo di Sara Bigardi e Paola Bellomi, Edizione indipendente, Pietra Ligure 2024

Ho letto il dialogo tra Antonietta Potente e Milagros Rivera sulla parola che ispira, la parola creatrice, poetica, e subito me ne sono innamorata, perché dice di un’esperienza della scrittura sulla quale mi sono tanto interrogata.

Quindi inizio a parlare di me, che non è la cosa più corretta volendo presentare un libro, però quel che ho capito e imparato nel mio percorso è il motivo che mi ha fatto entusiasmare del libro, proprio quello per cui ora lo presento. Del resto all’inizio di Quando Lei viene. La scrittura ispirata si legge espressamente che «Questo piccolo libro è stato scritto per essere letto con calma, contemplando ciò che si legge fino a sentirlo profondamente e aggiungere le proprie visioni o contributi». Ora, l’ho letto e riletto, ma senza calma, perché l’entusiasmo affretta la lettura e porta sui punti essenziali. Quelli più amati.

Il dialogo tra Antonietta e Milagros tocca qualcosa che mi sono trovata a vivere nella scrittura filosofica che è una delle esperienze più importanti della mia vita. Come dice soprattutto Antonietta, anch’io tante volte non ero soddisfatta di quel che scrivevo. Mancava il gusto, il piacere della scrittura. Sapevo scrivere sì, ma volevo qualche cosa d’altro. Ricordo una studentessa che scriveva la tesi portandomi un blocchetto di pagine solo ogni tanto. Riusciva a scrivere con rigore nel momento in cui il godimento della parola le permetteva di mettere a posto come in un disegno perfetto tutti i concetti. Altrimenti i concetti andavano ognuno per loro conto a caso. Così io. La possibilità di pensare aveva – ed ha – il bisogno di un godimento della scrittura. Mi sentivo fuori posto rispetto al contesto, ma il lavoro iniziato da Luisa Muraro sulla lingua materna, che poi in Diotima abbiamo ripreso e continuato, mi ha fatto scoprire ciò che in realtà già sapevo per esperienza: abbiamo a disposizione le potenzialità di una lingua affettiva corporea in cui le cose e le parole si rimandano. E per lo più, quando ora perdo il filo di questa partecipazione alla lingua nella sua genesi, leggo testi poetici che amo come quelli di Mariangela Gualtieri, di Marina Cvetaeva, Marguerite Duras, e questo mi rimette in sintonia con questa sorgente di parole, pensiero, cose, corpo, che si rimandano tra loro.

Proprio perciò, dato che ora so riconoscere quando agisco creativamente la scrittura – e sono i momenti in cui vado rischiando sui significati, procedendo senza garanzie – so apprezzare anche quello scrivere che è un fare chiarezza dentro di sé riguardo a certe idee già pensate per restituirle arricchite, intensificate e rese luminose.

Il dialogo di Antonietta Potente e di Milagros Rivera si concentra solo sulla pratica di scrittura creativa, poetica, che loro chiamano ispirata. È una bella parola “ispirata”. Rimanda a spirito, a soffio, a pneuma. Qualcosa ti soffia dentro la parola. Qualcosa di impersonale che possiamo accogliere oppure no. Ricorre la figura dell’Annunciazione nel loro testo. L’angelo annuncia a Maria il desiderio che il Signore ha nei suoi confronti e Maria accoglie ed accetta quel che le dice l’angelo. Pronuncia un sì a quelle parole impreviste, fuori dal già noto e conosciuto. La sua vita sarà trasformata da quell’annuire e far essere. Così è la parola ispirata nella scrittura. Avviene, è imprevedibile. È profondamente trasformativa. Avvia in un percorso di cui si sa come si inizia e non si sa dove si arriverà. Antonietta e Milagros lo ripetono: iniziare a scrivere in modo inspirato implica che non sappiamo che cosa diremo eppure procediamo in modo orientato. Del resto, è proprio così per ogni testo in cui si rischia e sentiamo creativo. Si trasforma con la scrittura e noi stessi ci trasformiamo con esso. Alla fine del testo saremo diverse da come abbiamo iniziato.

Ricorre nel dialogo l’idea che è la notte, quando si veglia, la culla della parola ispirata. Nel silenzio, quando tutto tace. Nella solitudine. Allora soffia lo spirito, prende forma un’idea, una parola, una frase che attendevano e non sapevano quale sarebbe stata. I sogni sono anche i luoghi in cui tante situazioni indeterminate trovano il soffio orientante a cui possiamo poi dare forma concreta.

È anche divertente e vero quel che dicono, che allora è tutto un appuntare, tenere foglietti a portata di mano, biglietti dell’autobus. Per non dimenticare. E questo avviene anche di giorno, ovviamente. Ma la notte è per loro il momento propizio. Come favorevole è la solitudine. Aggiungerei, perché così a me capita, una solitudine che si può vivere anche in mezzo agli altri.

Centrale nel dialogo è dunque il fatto che le idee non sono soggettive, né costruibili né tanto meno controllabili. Avvengono indipendentemente dalla nostra volontà. Di qui l’atteggiamento di umiltà rispetto ad esse, al pensare. Viene ripresa una figura che si incontra in tanti testi di donne medievali che segue la formula che potrei ricostruire in questo modo: «Io non sono nessuno, se non un’umile donna. Eppure, ho ricevuto la parola e ne parlo per obbedienza». In questo modo quelle donne medievali come quelle di oggi, che non costruiscono idee ma si pongono nella posizione di accoglierle, divengono mediatrici viventi. Mediatrici di qualcosa che non sanno, ma fanno essere via via nella scrittura.

Anche nel caso di Antonietta e Milagros, la loro autorità dipende dall’aver rinunciato alla centralità dell’io, al narcisismo, e dall’aver accettato che l’ispirazione venga da altrove e che solo così risulti lievito per una scrittura trasformativa.

Entrambe si pongono una domanda a questo punto fondamentale: da dove viene la parola ispirata? È una questione che nel loro testo non ha una risposta univoca, ma quel che ne dicono rimanda alla realtà, alla vita, all’enigma che essa è per noi. Dunque è la realtà vivente ad ispirare la parola. Per Antonietta in particolare Mistero e vita sono parole quasi equivalenti.

Ma cosa si intende allora per realtà e in che rapporto noi stiamo con essa? Ognuna può rispondere singolarmente a questa domanda in base alla propria esperienza, ma a me sembra che l’invito essenziale del testo sia di capire i nostri legami con la realtà, per cui, quando scriviamo in modo arrischiato, senza balaustre, poetico, rispondiamo alla realtà, esprimendola. È proprio allora che obbediamo ad essa e al suo enigma.

Alcune divergenze sulla questione della realtà tra Antonietta e Milagros sono interessanti da seguire. Sicuramente l’ispirazione non viene direttamente dal contesto; eppure, allo stesso tempo dipende da quello che la realtà ci sollecita a dire. Per Milagros le donne che le chiedono di parlare di certe questioni mettono in campo nella domanda il loro rapporto con il mondo. E Milagros, andando loro incontro, mette a sua volta in gioco il proprio legame ispirato con il reale, che non necessariamente coincide con il loro.

Più complesso quel che dice Antonietta. La vita è tessuta simbolica enigmatica, che si dischiude in visioni a chi ne è in attesa. Solo chi presta attenzione e si dispone all’ascolto ne verrà coinvolto. Cercare e desiderare il significato dell’esistenza sono la condizione perché la parola ispirata avvenga. Occorre pazienza orientata, apertura interiore. L’esistenza non è solo quella delle grandi, piccole o mediocri imprese umane, ma anche le grandi distese di acqua, di rocce, di deserti e di boschi. Storie umane e non umane dai tempi diversi, costantemente intrecciate. Tutto è scrigno di significati potenziali.

Come passare per la porta stretta, come trovare la piccola chiave d’oro perché un profilo del reale si distenda davanti e risuoni in noi? Certo, si interrogano le persone, la vita, le cose. Si desidera conoscere il mondo. A volte questo trova una risposta e la visione, la parola ispirata ci coinvolgono allora come se fossimo stati ascoltati ed esauditi.

Milagros pone una questione, ragionando su una impasse vissuta con donne di Duoda, il centro di ricerca delle donne dell’università di Barcellona. Sebbene abbiano più volte espresso il desiderio di scrivere, molte non sono riuscite, nonostante l’invito a farlo. Ha a che fare questa difficoltà con quello che Zambrano scrive in Verso un sapere dell’anima, quando dice che certe cose non possono essere dette, ma solo scritte? E che cosa impedisce loro di formulare quel segreto a cui solo la scrittura fa accedere? La risposta di Milagros è che la parola ispirata coinvolge in una verità che a volte può essere troppo grande per essere accolta. Il fatto è che il soffio ci pone in un rapporto con noi stesse a partire da qualcosa che sentiamo estraneo, come se fosse esterno a noi, ma che riconosciamo come vero per noi, così da invitarci ad un percorso di trasformazione. Questo può provocare l’attraversamento di strati di dolore e comunque di piani d’essere profondamente sconosciuti. Ci si può spaventare e ritrarsi. La verità apre un orizzonte a volte troppo grande rispetto a quello che possiamo soggettivamente sopportare.

Belle le parti del dialogo dedicate ai libri. Fa parte anche della mia esperienza il fatto che – come loro dicono – ci siano libri ispirati che ispirano. Per questo tornare ogni tanto a leggerli, citandoli a memoria, è costitutivo del processo di creazione, trasformazione, illuminazione. Sono libri che divengono così testi sacri nel nostro percorso esistenziale. Scrive Antonietta: «Di per sé i testi ispirati ti obbligano, ti obbligano, come quando Giacomo, un autore delle scritture cristiane, nella sua lettera scrive: “Tenere fisso lo sguardo sulle scritture per capirle”. Potrebbe anche voler dire che è una scrittura, ma ti darà la possibilità di una visione, perché si incarna nella tua vita». In sintonia con questo, per tanti anni all’università ho invitato le studentesse e gli studenti di filosofia a leggere e studiare i testi molto amati che davo in programma come fossero testi sacri, invitando a meditare la parola, perché si incarnasse nella loro vita. Diventasse esperienza vissuta.

Per concludere, vorrei parlare delle critiche che Antonietta Potente e Milagros Rivera portano al mondo universitario. Da una parte è verissimo che le norme accademiche di scrittura, di presa di parola, di standard di qualità proposti sono delle vere e proprie tecniche di disciplinamento e disegnano dei rapporti di potere precisi. Ne è esclusa qualsiasi pensabilità di idea ispirata. Porto un esempio. Se si pubblica un saggio in una rivista, è richiesto che ci siano dei lettori anonimi, che chi ha scritto non deve conoscere e viceversa. Questi portano osservazioni e proposte di cambiamento del saggio che occorre seguire per poter arrivare alla pubblicazione. È una precisa strategia di assoggettamento. Uno degli effetti più deleteri è che viene tagliato alla radice il legame di autorità tra una maestra o maestro e chi si è affidato a loro. Non si possono più avere consigli per cercare la via per andare all’essenziale di quel che si sente di esprimere, in fedeltà al soffio. Anche i legami di amicizia nello studio vengono distrutti. Ovviamente qualsiasi idea di parola ispirata sembrerebbe ai revisori anonimi dei testi un assurdo. Così anche ha ragione Milagros quando racconta che per avere fondi di ricerca occorre stilare un progetto in cui si dicano gli obiettivi e i risultati da perseguire. Il che è estraneo a qualsiasi pratica di ricerca di pensiero, che sa più o meno da dove parte – l’intuizione inziale, la parola ispirata – ma non sa cosa otterrà e quali saranno le scoperte e le trasformazioni. Solo alla fine infatti si può dire quel che il testo è diventato e noi che scriviamo con lui.

Se dunque da un lato la critica è giusta, dall’altro però è anche vero che l’università è un luogo dove si possono compiere azioni libere e ispirate, come invitare le, gli studenti a rapportarsi ai testi filosofici come testi sacri da incarnare e sperimentare, come ho fatto per anni. Oppure, come nel caso di Milagros, aver vissuto lezioni ispirate dove le studentesse e gli studenti smettono di prendere appunti e stanno ad ascoltarla perché si rendono conto che altro sta avvenendo in aula. La voce della docente apre ad un evento irriproducibile di cui loro si sentono partecipi.

Posso aggiungere che all’università sono nate esperienze come quella di Duoda e come quella di Diotima, dove donne autorevoli hanno saputo trasformare il gusto per la libertà in pratiche precise e fondative di un mondo. E questo in fedeltà a quello che sentivano.