L’economia è cura. Cos’altro, se no?*
Ina Praetorius
18 Maggio 2020
Tutti gli esseri umani sono bisognosi, dal primo all’ultimo giorno della loro vita. È per questo, in primo luogo, che quasi tutte/i noi facciamo quello che si chiama “lavorare” o “gestire un’economia”. Tutti gli esseri umani nascono come creature dipendenti. Solo se qualcuna/o li accudisce con cibo, protezione, cura e senso, dal momento della nascita e poi per anni, possono crescere e diventare adulte/i. Gestire l’economia significa nient’altro che: contribuire attivamente affinché tutte/i ricevano tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere. Ovvero, far sì che miliardi di cittadini/e di questa terra, che a loro volta convivono con innumerevoli altri esseri viventi nell’habitat generoso e vulnerabile della terra, riescano a convivere.
L’insegnamento del mondo come economia domestica
La maggior parte dei libri di economia a pagina 1 afferma questo obiettivo di tutte le attività economiche. Anche Wikipedia, dove oggi molte persone cercano il loro primo orientamento, recita: «L’economia è la totalità di tutte le istituzioni e le azioni che servono alla soddisfazione pianificata dei bisogni». Segue una spiegazione dell’origine della parola “economia”: il termine deriva da due parole greche, oíkos e nómos. Oíkos significa casa, nómos significa legge o insegnamento. Quindi l’oiko-nomia è la pratica e la teoria della gestione appropriata della casa. Come per ogni casa, la gestione della grande casa-mondo deve garantire che tutti coloro che vivono sotto il tetto comune ricevano ciò di cui hanno bisogno per vivere senza danneggiare l’ambiente in cui la casa è inserita e da cui dipende.
L’insegnamento del mercato globale
Tuttavia, a partire da pagina 2, i libri di economia comunemente usati presentano il mondo non come casa ma come mercato. Su questo mercato si mostrano persone sane e ben informate, sempre già adulte e dotate di tutto il necessario, che non rimangono mai incinte e che decidono sempre liberamente quali merci produrre, dove e quando, e con chi scambiarle per quanto denaro. L’economia domestica e l’ambiente circostante rimangono al margine del discorso: il centro dell’economia non è più la soddisfazione dei bisogni di tutti, ma “il libero gioco della domanda e dell’offerta”.
Come mai questo clamoroso cambio di argomento tra la prima e la seconda pagina dei libri di testo, per giunta quasi mai motivato? Cosa significa il fatto che apparentemente viviamo con un doppio concetto di economia? Con un’economia taciuta, nascosta, incentrata sul bisogno e un’economia appariscente incentrata sullo scambio?
Un doppio concetto di economia
Questo doppio concetto è riconducibile al fatto che solo poco tempo fa il patriarcato è finito e la schiavitù è stata ufficialmente abolita. Nell’antica Grecia, quando i filosofi introdussero il concetto di economia, infatti, si accettava l’idea che le società umane fossero composte da persone libere e da altre dipendenti. Il compito di quelle dipendenti era di provvedere a tutte le necessità della vita e di generare la prole per l’oíkos. In questo modo hanno generato, oltre la vita, anche la libertà dei proprietari di schiavi, che controllavano ciascuno una famiglia e potevano così dedicarsi ad attività “superiori”: la politica, la costruzione di teorie, la guerra.
In questo ordine sociale gerarchico è nata logicamente la visione del mondo su cui ancora oggi gli economisti fedeli alla loro disciplina amano fare affidamento: il libero cittadino autoctono possiede una casa privata in cui la moglie, casomai con il supporto del personale di servizio, badanti immigrate/i, asili nido, ragazze alla pari, nonne o bambinaie, garantisce, possibilmente in modo invisibile, che la cena sia pronta, il bambino allattato, la casa ben sistemata e l’atmosfera armoniosa quando il cosiddetto capofamiglia (in tedesco: Ernährer, colui che nutre) torna a casa la sera da quell’attività chiamata “lavoro”, ma probabilmente da ciò che l’antropologo David Graeber chiama un “bullshit-job” (lavoro di merda).
Che cosa significa per il futuro. E una buona vita per tutte e tutti
Nel 1793, Olympe de Gouges, autrice della «Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina» fu decapitata a Parigi. Poco dopo, le donne che lottavano per i loro diritti cominciarono a rivoltarsi contro il loro status di “animali domestici”. Nel XX secolo hanno ottenuto i diritti civili e il divieto di discriminazione e hanno dato vita al dibattito femminista sul lavoro domestico. Hanno denunciato forte e chiaro e a voce sempre più alta che il lavoro femminile svolto gratuitamente viene deliberatamente taciuto, per aumentare il profitto di coloro che mettono in conto solo ciò che rende denaro. Alcune hanno chiesto la ripartizione equa del lavoro di cura tra i sessi, altre la riduzione del lavoro retribuito o un salario per i lavori domestici. Insieme hanno ottenuto che negli anni ’90 in molti Paesi iniziasse la raccolta di dati sul lavoro non retribuito. Su questa base, scienziati/e e attiviste hanno allargato la ricerca su ciò che prima si chiamava Home Economics o teoria della riproduzione, e che ora si chiamava Care-Economy o economia della cura. Nel marzo 2015 è stata proclamata a Berlino la Care Revolution e nel dicembre dello stesso anno è stata fondata in Svizzera a San Gallo l’associazione Wirtschaft ist Care (L’economia è cura). Si impegna per «la riorganizzazione dell’economia intorno alla sua attività principale, la soddisfazione dei bisogni umani reali in tutto il mondo». Nel gennaio 2020, poco prima del 50° World Economic Forum di Davos, l’organizzazione britannica per lo sviluppo Oxfam ha riferito: «Le donne guadagnano in media il 23 per cento in meno (rispetto agli uomini) e sono più frequentemente colpite dalla povertà estrema. Questo è il risultato di un sistema economico in cui le donne e le ragazze dedicano più di 12 miliardi di ore al giorno al lavoro domestico non retribuito, alla cura e all’assistenza senza che il valore di questo lavoro sia riconosciuto. Se si ipotizzasse il salario minimo per questo lavoro, ammonterebbe a 11 trilioni di dollari all’anno». Infine, nella primavera del 2020, una pandemia globale ha rivelato quale lavoro è superfluo e quale è rilevante per la vita e il futuro: non sono le compagnie aeree, i banchieri, il calcio e gli accademici a tenere in piedi la vita umana e la convivenza nel vulnerabile ambiente della terra, ma i genitori, i nonni, il personale di assistenza, le contadine, le infrastrutture pubbliche, i servizi di pulizia, di smaltimento dei rifiuti e di consegna.
È ora di scardinare finalmente l’economia divisa in due.
L’economia è cura
Per il movimento mondiale che si impegna per questo obiettivo si è affermato il termine inglese Care. Molte persone sono ancora abituate a intendere la cura come una virtù materna, “morbida”, che nelle case private e in determinati settori a prevalenza femminile rende sopportabile il “duro” calcolare dei maschi fuori, nel mondo ostile. Tuttavia, come scrive la scienziata sociale viennese Michaela Moser in ABC des Gutens Lebens (“L’ABC della buona vita”, NdT, uscito nel 2012 per Christel Göttert Verlag), “cura” assume sempre di più il significato di un nuovo (o addirittura antico) paradigma, di un metro di misura per la totalità dell’economia: «la consapevolezza della dipendenza, del bisogno e dell’essere in relazione come costituzione umana di base, e […] le attività concrete di cura in senso lato. Si tratta di prendersi cura del mondo […] non solo attraverso l’assistenza e il lavoro sociale o i lavori domestici in senso stretto, ma […] attraverso l’impegno per un cambio di civiltà».
Questo prendersi cura l’uno dell’altro e del mondo è sempre stata una parte centrale dell’Oiko-Nomia, e deve diventare (di nuovo) il fulcro di tutte le attività economiche: l’economia è la soddisfazione attenta e avveduta dei bisogni di miliardi di donne e uomini che, con piena dignità, vogliono vivere bene nell’habitat generoso, vulnerabile e minacciato della terra, insieme ai loro discendenti: l’economia è cura.
(*) Come contributo alla discussione, Ina Praetorius ci ha gentilmente concesso in anteprima questo testo che sarà pubblicato (in tedesco) nel mese di settembre 2020 sulla rivista «Neue Wege».
(Traduzione di Traudel Sattler)