Le “scienziate visionarie” dalla parte della trasformazione sociale e della salute pubblica
Linda Maggiori
8 Maggio 2025
da Altraeconomia
Dalle fabbriche alle foreste, dalle discariche al nucleare, le donne scienziate raccontate nel libro “Scienziate visionarie. 10 storie di impegno per l’ambiente e la salute” (Ed. Dedalo, 2024) hanno ridefinito il panorama scientifico, portando la ricerca fuori dai laboratori e andando ostinatamente controcorrente.
Cristina Mangia e Sabrina Presto, ricercatrici del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) e socie dell’associazione Donne e Scienza, pagina dopo pagina ricostruiscono le appassionanti biografie di queste scienziate che, a partire dai primi del Novecento, hanno affrontato pregiudizi e contestato l’apparente neutralità e il disimpegno della scienza per trasformarla in una disciplina radicata nel mondo, capace di trasformazione sociale e tutela della salute pubblica.
“Spesso chi è marginalizzato porta visioni lontane dal mainstream, appunto visionarie, così hanno fatto le donne nella scienza -spiegano le due ricercatrici-. L’immaginario dominante vede ancora la scienza come oggettiva e neutrale, con una formazione tecnico-scientifica che rafforza la separazione tra saperi esperti e non esperti”.
Da Rachel Carson che per prima negli anni Sessanta denunciò gli effetti del Ddt e altri pesticidi sugli ecosistemi e sulla salute delle persone, scontrandosi con le lobby dell’agrofarmaco (che cercarono in ogni modo di screditarla), a Beverly Paigen che già nel 1974 criticava gli scienziati accademici “che tendono a non farsi coinvolgere, si considerano osservatori distanti e obiettivi, alla ricerca della verità”. Paigen intuiva che bisognava connettersi alle comunità inquinate. Caso volle che fu chiamata proprio dalle mamme di Love Canal, un piccolo paese vicino alle cascate del Niagara, disperate per lo stillicidio di aborti e malattie che flagellava la loro comunità. Con questionari alla popolazione locale e ricerca sul campo la scienziata scoprì che le malattie erano connesse ad una gigantesca discarica di rifiuti tossici interrata, aiutando quindi la popolazione a pretendere bonifiche, risarcimenti e delocalizzazioni. “La vicenda di Beverly Paigen è emblematica: mentre il gruppo di ricerca governativo mantiene il distacco dalla popolazione per garantire l’obiettività dello studio, dall’altro, Paigen collabora con le comunità, riconoscendo il valore della conoscenza locale nel migliorare la qualità della ricerca senza comprometterne il rigore. I risultati le daranno ragione”, sottolineano le autrici del libro.
Un modo di approcciarsi alla ricerca molto attuale, vista la crescente consapevolezza della necessità di coinvolgere le comunità nei processi di ricerca ambientale. Alcuni progetti si stanno muovendo in questa direzione attraverso la citizen science. Secondo le due ricercatrici però questi progetti “sono spesso limitati alla raccolta di dati come misurazioni dell’aria o delle acque, riducendo le popolazioni a semplici sentinelle ambientali. È invece fondamentale ampliare la partecipazione, consentendo alle comunità di contribuire alla definizione delle domande di ricerca, allo svolgimento degli studi e all’individuazione di soluzioni. La formulazione dei quesiti scientifici e la distribuzione dei finanziamenti orientano le risposte degli studi e ne determinano l’utilità per i gruppi di ricerca e/o per le popolazioni coinvolte”.
Cristina Mangia si occupa di inquinamento atmosferico e del suo impatto sulla salute, confrontandosi spesso con le comunità alle prese con problemi ambientali: “Molte delle domande poste dalle scienziate nel libro sono state anche le mie, a partire da quelle di Beverly Paigen e Laura Conti sull’accettabilità del rischio e sul diritto di una popolazione a essere informata quando vive in un’area a rischio. A volte le preoccupazioni degli abitanti sono diventate le nostre domande di ricerca, come a Brindisi riguardo le malformazioni congenite o l’impatto delle centrali a carbone. O anche a Taranto quando abbiamo contribuito alla revisione della misura dei ‘wind days’, che imponeva alla popolazione di regolare l’apertura delle finestre in base ai venti provenienti dalla zona industriale. In altre occasioni, abbiamo lavorato in stretta collaborazione con le le comunità territoriali coinvolgendole in tutte le fasi del processo scientifico. È accaduto a San Donaci (BR) e a Manfredonia (FG), dove i cittadini hanno preso parte alla definizione delle domande di ricerca, all’analisi dei dati e alla condivisione dei risultati, contribuendo all’elaborazione di strategie concrete. Molto spesso ho affiancato le comunità nell’interpretazione di documenti tecnici sugli impatti ambientali e sanitari che riguardavano i loro territori, al fine di renderle più consapevoli e autonome nelle loro battaglie per la salute e la giustizia ambientale”.
Le donne sono state pionere anche sulla salute nei luoghi di lavoro. Il libro ripercorre la vita di Alice Hamilton medica e fondatrice della medicina del lavoro, che con la sua “epidemiologia di strada” andava quotidianamente nelle fabbriche, parlava e visitava gli operai e i loro familiari, e fu la prima a denunciare la tossicità delle lavorazioni a base di piombo, mercurio, arsenico e altre sostanze alle quali i lavoratori erano costantemente esposti. Hamilton denunciò il precariato nel lavoro, strettamente legato al tasso di avvelenamento, ma anche le fabbriche degli esplosivi che producevano armamenti. Chiedeva più fondi per la ricerca e denunciava l’utilizzo degli operai come “cavie umane” a fronte della produzione di sempre nuove sostanze chimiche utilizzate dalle industrie, senza prove sufficienti sulla loro innocuità.
Poi ancora Alice Stewart che per prima scoprì e denunciò la nocività delle radiazioni durante la gravidanza e studiò gli effetti dell’esposizione a basse dosi delle radiazioni sulla salute, diventando la scienziata di riferimento dei movimenti antinuclearisti; Suzanne Simard, con le sue ricerche sulle connessioni sotterranee tra gli alberi, Lynn Margulis, Sara Josephine Baker, Donella Meadows, con la critica alla crescita economica e ai famosi “limiti dello sviluppo”, fino a Wangari Maathai, la scienziata che piantava gli alberi.
Senza dimenticare la coraggiosa scienziata giapponese Katsuko Saruhashi che per prima denunciò gli effetti devastanti dei test con la bomba a idrogeno, studiando fin dove arrivava il fallout (pulviscolo di particelle radioattive). La sua competenza venne messa in dubbio dagli scienziati (quasi tutti uomini) americani, ma lei dimostrò che erano loro a sbagliare. Solidarizzò con il movimento pacifista e antinuclearista, denunciando l’uso a scopi militari del plutonio generato dai reattori e la difficoltà di smaltimento delle scorie radioattive. Rivolgendosi ai ricercatori del progetto Manhattan scrisse: “Come possono difendere la loro innocenza? Gli scienziati avrebbero dovuto sapere”.
Tematiche ancora attuali, perché le lobby industriali e militari possono ancora, come un tempo, influenzare e piegare la scienza. “La ricerca ha bisogno di soldi e gli investimenti pubblici non sempre sono sufficienti -confermano le due ricercatrici-. Questo apre la porta all’influenza di lobby industriali e militari, che ancora oggi hanno un ruolo determinante nel definire le priorità della scienza. Oltre a orientare lo sviluppo tecnologico, spesso questi gruppi influenzano la ricerca, alimentando dubbi su questioni cruciali come il cambiamento climatico o la nocività di alcune sostanze, ritardando decisioni politiche e normative. È successo in passato con il fumo di tabacco, più recentemente con alcuni pesticidi e sta accadendo oggi con i Pfas. L’influenza delle grandi industrie si estende anche al settore energetico, incluso il nucleare, con il rischio di condizionare il dibattito pubblico e scientifico. Per concludere, crediamo che la scienza abbia ancora bisogno di scienziate visionarie, figure del calibro di Katsuko Saruhashi o Lynn Margulis, la scienziata che rifiutò un cospicuo finanziamento vincolato alla riservatezza dei risultati, affermando: se non è pubblica, non è scienza”.