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Da la Repubblica

Osservatele bene, queste donne. Sorridono quasi sempre, anche quando invocano la rabbia. Sfidano l’obiettivo guardando dritte in camera, a volte sembra che lo vogliano sbeffeggiare, caricate a mille da secoli di sottomissione. Sono diverse le une dalle altre, alte e slanciate, piccole e tarchiate, ricce e lisce, giovani e vecchie, borghesi e proletarie, non c’è una estetica comune se non l’esibita noncuranza con cui indossano gonnellone, ponchos e maglioni peruviani. Possono alzare la voce e picchiare sui tamburelli ma generalmente danno l’impressione di essere serene, anche orgogliose di sé stesse, capaci di suggerire ricette su qualsiasi cosa, «dalla poesia al pollo arrosto», come scrisse Lidia Menapace, «le mani affondate nell’impasto del mondo per farlo diverso e migliore». Guardatele bene queste ragazze degli anni Settanta perché tra un girotondo, un concerto, una manifestazione e centinaia di slogan hanno cambiato l’Italia, uniche rivoluzionarie in un Paese che non conosce rivoluzioni.

Bisogna sfogliare il bellissimo album “Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta” per capire perché le ragazze di quella stagione non invecchiano mai. Oggi potranno pure essere vegliarde e piene di acciacchi, ma lo sguardo resta irriverente, la postura mai arresa, e integra negli occhi la luce di chi sa captare a distanza la coda violenta di un patriarcato che non muore.

A raccontarcele attraverso le immagini è una di loro, Paola Agosti, fotografa del movimento femminista negli anni più tumultuosi, figlia del partigiano Giorgio e pioniera in un terreno ancora monopolizzato dai maschi. E ad accompagnare questi scatti d’autrice con esemplari didascalie narrative è una ragazza che potrebbe essere loro figlia, Benedetta Tobagi, nata nello stesso anno in cui Paola fermava in una celebre foto-manifesto un gruppo di donne molto divertite nel lanciare in alto le loro mani in forma di rombo davanti ai poliziotti in assetto di guerra (era il 1977). «Quale migliore risposta alla P38?», commenta laconica Tobagi, che ripropone in queste pagine una felice formula già sperimentata con successo nel libro sulle partigiane.

Al tema dell’uso legittimo della violenza cedette anche una parte delle femministe, ma la cifra che accomuna queste immagini è l’allegria di chi fa la cosa giusta, abbattendo muri di silenzio e di subalternità. Le donne prendono la parola e insieme scoprono l’autocoscienza, partendo da sé stesse, dalle storie personali, da storie di ingiustizia e anche umiliazione.

Una liberazione collettiva che è una corsa ad ostacoli, ovunque sono le resistenze maschili, a casa con il compagno di vita, in fabbrica tra operai e sindacati diffidenti verso un’imprevista e contagiosa “isteria”, anche tra i movimenti dell’estrema sinistra perché va bene fare la rivoluzione, ma questa storia del separatismo femminista si fa fatica a digerirla, che vi siete messe in testa, non vi basta fare gli angeli del ciclostile? E se poi non ci stai, allora sei frigida o repressa.

E non fu certo un caso che Lotta Continua – dove le donne venivano chiamate con il genitivo dell’appartenenza maschile, Maria di Gigino o Lorenza di Gigetto – fu sciolta grazie alla protesta delle compagne contro l’autoritarismo dell’organizzazione. E i ragazzi di Potere Operaio arrivarono a interrompere nel 1972 una seduta di femministe a Roma lanciando preservativi pieni d’acqua. Il Manifesto s’affrettò a stigmatizzare, ovviamente, ma con un’interessante postilla: «Non c’è niente di serio nel trattenersi in assemblee unisessuali».

Ci si accapiglia tra maschi e femmine, ma anche tra le donne è una discussione senza fine, di qua le emancipazioniste del Pci e dell’Udi – eguali diritti per tutti – di là le teoriche della differenza e del separatismo, che mettono più radicalmente in discussione il patriarcato, accusando le prime di connivenza con il nemico e venendo a loro volta accusate di mettere i bastoni tra le ruote della rivolta sociale.

Ma poi alla fine si trovò una intesa, anche tra le madri partigiane e le irrequiete figlie del Sessantotto, perché il femminismo di quella stagione fu proprio la scoperta di tutte le altre: soltanto unite, tenendosi per mano, in una solidarietà che andava oltre sé stesse, si potevano conquistare nuove frontiere, la legge sul divorzio, i consultori, poi la legalizzazione dell’aborto, i processi collettivi per stupro, per la prima volta a porte aperte. E non importa se difetti e incompiutezze segnavano i comuni traguardi perché comunque andava cambiando il corso della storia.

Una rivoluzione affettuosa, che passa attraverso gesti di sorellanza, sorrisi e sguardi incrociati, carezze tra chi per la prima volta condivideva «un’esperienza fondativa e totalizzante», anche la scoperta del corpo e della sessualità. Mossa da empatia, la macchina fotografica di Agosti riesce a cogliere la fisicità complice delle ragazze che indicava un nuovo modo di stare al mondo. Una complicità estesa anche ai bambini, portati nelle piazze con allegria, quasi a rivendicare l’orgoglio di una maternità felice contro l’immagine luttuosa proiettata sulle donne che si battevano per legalizzare l’aborto, assassine allora e infanticide ancora oggi nella propaganda dei cosiddetti comitati che si dichiarano “pro-vita”, come se tutte le altre fossero pro-morte e non per una gravidanza voluta e consapevole.

La domanda che attraversa questo straordinario viaggio per immagini è se realmente sia stata una rivoluzione, anche perché mezzo secolo dopo il panorama è tra i più sconfortanti, con il patriarcato che appare più agguerrito che mai – nonostante il ministro dell’Istruzione Valditara lo ritenga una bizzarra invenzione ideologica –, con le istanze antiabortiste che trovano sponda nei nuovi padroni politici e con le donne di nuovo in tribunale non in veste di vittima ma in quella di imputata se fanno i figli con una compagna. Ma la parola rivoluzione riferita al femminismo serve a rimarcare il valore assoluto dei diritti conquistati, come a dire che indietro non si deve tornare.

E ancora oggi le spavalde protagoniste degli anni Settanta ci dicono che non bisogna abbassare la guardia, che la solidarietà femminile deve andare oltre «uno sguardo maschile che continua a dividere tra belle e brutte, giovani e vecchie, accondiscendenti e riottose» (copyright Silvia Vegetti Finzi), che non esiste una liberazione personale se non ci si impegna in un cambiamento della società per renderla più giusta e aperta. Tra tutte – conclude Tobagi – è forse questa l’eredità più importante per le donne del XXI secolo. Anche la più impegnativa, in un mondo sempre meno umano.

Covando un mondo nuovo, di Paola Agosti e Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 152, euro 35).