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Da Il Quotidiano del Sud – Il parto di che mondo e mondo è un’esperienza solo delle donne che per secoli hanno partorito in casa aiutate da levatrici, poi ostetriche, mammane, vicine di casa, donne anziane esperte. Donne custodi di saperi, competenze e relazioni cancellate dall’ospedalizzazione e medicalizzazione del parto, ritenuto dalla medicina ufficiale più sicuro. Un “Gruppo di ostetriche” di Mestre, sulla spinta del movimento politico delle donne, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha tenuto in vita la pratica del parto in casa, rendendo onore al «sapere scientifico femminile» e ponendo al centro la relazione tra madre ed ostetrica. Un’esperienza la loro che Franca Marcomin, fondatrice del gruppo, racconta nel libro Parti in casa a Venezia. Storia di un’ostetrica femminista e delle sue colleghe, edito da Il Poligrafo. Ciò che spinge l’autrice è il desiderio di lasciare memoria e testimonianza di quarant’anni di straordinaria esperienza sua e delle sue colleghe, di formazione e trasmissione di memoria che hanno cambiato la concezione di questa antica professione. Destinatarie del libro sono le giovani ostetriche neolaureate o in procinto di laurearsi perché «sappiano che non partono da zero. C’è una genealogia femminile a cui riferirsi, che costituisce un precedente di forza» e perché traggano orientamento «dall’elaborazione e dal pensiero delle donne sul parto». Al racconto diretto dell’autrice si unisce la voce delle colleghe attraverso interviste e quella di alcune delle madri aiutate in questi anni a partorire in casa in modo naturale, restituendo «autorità ai saperi, alle pratiche e alle relazioni femminili presenti sulla scena della nascita». Racconti e testimonianze che ci dicono come la casa «si è rivelato il luogo più vicino a una nascita naturale e non violenta», senza traumi e ferite, di cui le madri sono protagoniste attive e non passive, e le ostetriche si riappropriano di quella autonomia di cui hanno goduto per secoli le loro ave e che negli ospedali è stata loro tolta da medici, ginecologi e primari. Le donne hanno sempre saputo come fare nascere le loro creature, le ostetriche sanno come aiutarle a partorire in modo “naturale”. È pur vero che «non tutte le donne possono partorire a casa propria», allora perché non «rendere l’ospedale il più possibile simile a una casa?». Trasformare le strutture ospedaliere per «fare del momento della nascita un’esperienza soddisfacente per la madre, il padre e il neonato o neonata», come nel parto in casa, è stato l’obiettivo dell’autrice e delle sue colleghe che hanno continuato a lavorare anche in ospedale, qualcuna, invece, si è licenziata. Si sono impegnate per avere ovunque «forme pubbliche di assistenza per il parto in casa e l’assistenza a domicilio dopo la dimissione precoce dall’ospedale dopo il parto». Qualcosa in molti ospedali è cambiato, grazie a loro e a tante altre: c’è di nuovo l’autonomia nell’assistenza al parto fisiologico e l’ostetrica può far intervenire il medico solo quando ne ravvisa la necessità clinica. Alcune regioni nei loro piani sanitari hanno inserito la possibilità di scelta dei luoghi del parto e/o il rimborso delle spese dei parti a domicilio. Molto deve ancora cambiare: il parto in casa è solo l’1%, non è offerto dal Servizio sanitario e nessuna legge nazionale in tal senso è stata mai approvata, anche se presentata. «Credo sia giusto che ogni donna possa scegliere di partorire nel modo che lei sente più sicuro e giusto per sé», dice una madre con esperienza di parto sia in casa che in ospedale. In un tempo in cui si cerca di cancellare la madre attraverso l’utero in affitto non ci si deve dimenticare «che comunque il luogo del parto è il corpo sessuato» di donna. Un corpo che si vuole cancellare come le levatrici, che le figlie, loro eredi, onorano con il loro racconto.