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Esistono solo due opere artistiche dedicate a Genoeffa Cocconi e sono tra loro, per simboli e cultura, molto differenti. Stanno entrambe girando l’Italia e si sono incontrate per la prima volta a Brescia il 25 luglio scorso per la tradizionale Pastasciutta dei Cervi del 25 agosto del 1943, grazie all’ANPI di Lucio Pedroni e a Vanna Chiarabini, Marisa Veroni e Laura Forcella che le hanno messe assieme. È una novità politica il confronto che queste due opere propongono su Genoeffa.

La mia mostra del 2022 è la prima su di lei e si intitola: Genoeffa Cocconi Cervi: l’Ottava Vittima, una Maria Laica. Sono dodici grandi disegni solo su lei, in dimensione reale per dare la sua complessità, a matita, a volte con fondi scritti o colorati di rosso, oro o nero. Contiene anche un video di mezz’ora: Maria Morotto racconta la nonna. Maria, ancora vivente, era la nipote più grande dodicenne quando sono stati arrestati gli uomini di famiglia nel novembre del 1943 e fu mandata dalla madre Diomira Cervi ad aiutare Genoeffa. Starà con lei fino alla sua morte il 14 novembre 1944.

La novità della mostra per Genoeffa è nella definizione di vittima a ottant’anni dalla sua morte e nella licenza poetica di “Maria laica” che mi sono presa nel definirla. Io sono Clelia Mori, una pittrice reggiana.

L’altra versione del 2024 è quella di un regista parmense: Marco Mazzieri. È il primo docufilm su Genoeffa, dura cinquantacinque minuti e il titolo è Genoeffa Cocconi. I miei figli, i fratelli Cervi. Nasce due anni dopo la mostra e lei nel film non è una vittima.

Confrontando i due titoli salta agli occhi un conflitto interpretativo su Genoeffa che sposta l’analisi dalle opere, entrambe artisticamente interessanti, alle idee che l’hanno definita. La Genoeffa del docufilm si muove in un pensiero storico/patriarcale che non consente a una donna, pur se madre di sette figli fucilati insieme dai fascisti reggiani, di diventare l’ottava vittima della sua famiglia essendo morta di “crepacuore” neanche un anno dopo i figli. Nel film Genoeffa è una dolce, colta e buona madre di famiglia e il suo crepacuore un fatto personale e materno. Una visione genoeffiana che riflette quella pluridecennale del Museo Cervi che ha collaborato al film. Il regista ha affermato in pubblico, nel paese del Museo, che definirla vittima è fare del vittimismo. Forse c’è confusione sul significato di vittimismo e di vittima.

La mia mostra non lega Genoeffa ai figli, cerca la donna diventata dieci volte madre e guarda con lo stesso valore “tutti” i componenti della famiglia scomparsi. Lei nei disegni non è mai finita perché è la misconosciuta da rimettere nella storia al centro della famiglia che ha creato. Nessuno la conosce per nome e cognome, devi specificare che è la madre dei sette fratelli Cervi e allora gli occhi si illuminano. Come è stata possibile questa invisibilità per ottant’anni dalla sua morte?

La morte è sempre una scomparsa dalla vita. Ma, stare dallo stesso lato della storia non può voler dire togliere dignità alla morte della madre per il modo in cui ti uccidono i fascisti. Lei è vittima, come i figli, dei fascisti, anche se è morta di crepacuore e non è stata fucilata.

Se non la si vede vittima per via del crepacuore, la si incastra nella madre e donna patriarcale e nell’idea che una donna che non ha scelto le armi non ha fatto la Resistenza. È un di meno per lei, i figli, la Resistenza e la democrazia. Circoscrivere la presenza della portata delle donne nella Resistenza misconosce il lavoro generativo e accuditore della madre. Mettiamo “al mondo il mondo”, ma per Genoeffa non ha contato. Si dice che era colta, che aveva educato i figli e si nomina come rezdora. Dei di più, di cui come madre non aveva bisogno, che non sono bastati per dirla vittima come i figli. Non un’eroina, ma almeno la vittima in più della famiglia, un numero in più sulla infinita ferocia fascista da far vedere.

Non l’avevano già colpita abbastanza, come si fa a non sentire questo dolore spropositato di donna? Calamandrei nel 1954 dice che forse non esiste un popolo che ha vissuto una storia così crudele come quella dei Cervi e la paragona a Niobe, e Rodari nel 1955 la definisce “uccisa” nella sua lirica sui Cervi, ma sono state poetiche invisibili per la storia.

Lei non avrebbe mai potuto dire «dopo un raccolto ne viene un altro» come dirà il marito Alcide. I padri si sa non partoriscono. Ma Genoeffa il suo raccolto della foto dell’aia, da cui l’ho disegnata con il suo invisibile sorriso, non l’aveva più intorno e non ne poteva fare un altro. La donna e la madre avevano consumato tutte le loro energie e dopo un mese dalla malattia se ne sono andate. La malattia era arrivata quando i fascisti le avevano incendiato ancora il fienile appena rattoppato, con undici nipoti piccoli da sfamare, quattro nuore e un marito anziano a cui aveva persino nascosto per più di un mese la morte dei figli, temendo per la sua salute perché era appena tornato dal carcere. Il vittimismo non è per Genoeffa.

Possedeva anche una capacità critica che da cattolica praticava, mettendo in discussione perfino le prediche del prete per l’eccesso di compiacenza col potere, mentre tornavano dai campi dopo la messa.

Le due opere artistiche così diventano un volano per una ricerca ampia e complessa sulla concretezza della storia della Resistenza e sulla cristallizzazione delle parole.

Il concetto di vittima è tutto centrato sull’uso delle armi anche per troppe storiche donne, ma c’è stata pure una lotta femminile non armata. Pensiamo a tutte quelle donne che come Genoeffa hanno aperto la porta di casa a sbandati, disertori e renitenti alla leva che non volevano più sacrificare la loro vita per la guerra dei nazifascisti e cercavano un’altra idea di giustizia e libertà. Dove andavano dall’otto settembre in poi, se non fossero stati accolti e accuditi da queste tante donne che rischiavano la casa, la famiglia e la propria vita, come è successo a Genoeffa, dando forse inizio alla Resistenza, ma fornendo pure su un piatto d’argento il loro indirizzo di casa ai fascisti locali…

La lotta senza armi è ancora troppo poco illuminata insieme a quella del concetto di vittima femminile dell’antifascismo, che, nel caso di Genoeffa, insiste proprio sulla differenza tra morire di crepacuore o essere uccisi sparati, impedendo a Genoeffa di essere riconosciuta come figura inaugurale della sua storia familiare. Oltre a nascondere uno strisciante conflitto nella relazione tra donna e uomo, già dalla costruzione dell’antifascismo.

Non a caso l’autore del docufilm è un uomo e l’autrice della mostra è una donna. Proveniamo entrambi dallo stesso Istituto d’arte: il Toschi di Parma, abitiamo vicino al Museo e io, come artista, ho una visione del simbolico femminile molto differente da quella maschile e una libertà di pensiero che forse un regista non si può permettere se non ha la fortuna di produrre in proprio, come me, la sua opera.

Il potere di un video è grande, ma il confronto col disegno prima o poi arriva e a Brescia è successo.

Lei nel Museo di casa sua non ha antenati nell’albero genealogico che invece Alcide possiede. Sembra nata sotto al cavolo, ma all’anagrafe di Campegine dove è nata e sepolta li ho trovati e sono nel video. Volevo darle la sua importanza. Senza di lei che ha generato i figli la famiglia Cervi non sarebbe mai esistita.

La “Maria laica” e il mistero dell’oro nascono dalla sua posa in una delle sue due foto, quella dell’aia, dove sembra una Maria medioevale seduta in trono, con intorno, proprio come nei Giotto e i Boninsegna, le due file di angeli di figli e figlie. Come Maria, subirà la sua stessa innominabile sofferenza di madre, moltiplicata per sette in un attimo.