L’autocoscienza è l’altra, la mia avventura sono io… e viceversa
Cecilia Alagna
20 Ottobre 2023
Ho scelto come titolo di questa breve riflessione due passaggi del secondo manifesto di Rivolta Femminile, li ho ricombinati fra loro perché questo rimescolare discorsivo restituisce quello che l’autocoscienza è diventato per me nell’arco di tre anni. È per me un’impresa rischiosa parlare dell’autocoscienza, provo il senso della vertigine, perché essa è una pratica connessa al nostro essere donne-persone-soggetto nel nostro divenire consapevole e proprio per questo mi sfuggono sempre i termini del discorso, i confini, le forme.
Tutto è iniziato nel 2018, alle soglie dei miei trentacinque anni, quando l’idea della pratica dell’autocoscienza è diventata qualcosa di ricorrente nel panorama dei miei pensieri e allora, pur non avendo minimamente idea di che cosa aspettarmi, ne coltivai da sola il desiderio; poi, fra il 2019 e il 2020, quando il mio essere donna-madre-moglie era diventato una dimensione di solitudine e alienazione si imposero le parole di mia madre «Sii più femminista nella tua vita personale e non solo livello politico»: per la prima volta nella mia vita le avevo sentito pronunciare delle parole che avevano al centro me e che mi richiamavano a farmi soggetto pensato di me stessa. Quelle sono state le ultime parole di amore che le ho sentito pronunciare: non c’era rimprovero nella sua voce né giudizio, erano le parole di una donna verso un’altra donna; lei donna clitoridea, io donna vaginale. L’autocoscienza è iniziata in quello scambio.
Nei mesi che seguirono iniziai una guerra, per usare un’espressione cara ad Angela Putino, con me stessa e per mesi volteggiarono nella mia mente le parole del filosofo Seneca «Vindica te tibi» (affrancati, liberati), un’espressione che con stupore incontrai poi alle soglie del 2021 fra le parole di Carla Lonzi che mi invitavano, come aveva fatto per tre anni la mia amata professoressa di filosofia del liceo – suor Clotilde Milinci – a fronteggiare i meccanismi di autodifesa in cui ci crogioliamo per permanere cullate dalla nostra falsa coscienza; oggi probabilmente qualcuna direbbe che suor Clotilde ci invitava ad essere out of the comfort zone, lei la chiamava “vita autentica”, “essere persone e non individue”. Se per una parte considerevole della vita la mia coscienza era sempre stata punzecchiata e richiamata da donne più grandi di me alle quali ero legata da una relazione gerarchica affettuosa, mi sentivo finalmente pronta a fare lo stesso in relazioni simmetriche e prive di gerarchia.
Oggi l’autocoscienza, oltre che pratica di incontro, è diventata postura, matrice. Durante l’incontro di Via Dogana sono risuonate, quasi che fosse la mia bocca a pronunciarle, le parole di tre donne: Maria Castiglioni, che ha parlato del suo gruppo di autocoscienza, Roberta Cordaro, che è legata ai luoghi terzidi una delle madri dell’autocoscienza italiana, Daniela Pellegrini, e Claudia M., una delle donne con cui la pratico settimanalmente; mi è sembrato, nell’ascoltarle, che ricorresse un termine a me caro: domande. Se l’autocoscienza è iniziata in un dialogo da donna a donna fra me e mia madre, essa è continuata nelle altre donne, prima fra tutte Alessandra Lanivi, per me amatissima, alla quale devo le domande più difficili, quelle che hanno ipotizzato e svelato le mie contraddizioni. Le domande dall’altra che ti ascolta in autocoscienza sono una mano tesa, un appiglio e al tempo stesso l’epicentro di scuotimento, l’epicentro di quel terremoto che fa emergere trasformativamente questa me incarnata; l’autocoscienza è l’altra, appunto, e questa soggetta che ti è simile e divergente al tempo stesso è spinta, sostegno, scialle che ti avvolge, energia che ti contiene in un legame simmetrico di rispondenze. Sebbene ritenga che questa pratica sia possibile in una prospettiva di relazione duale fra donne, penso che la dimensione del “piccolo gruppo”, del luogo terzo – come giustamente lo definisce Daniela Pellegrini – variamente ma stabilmente abitato, sia quella ottimale, poiché il fatto che le donne si facciano presenza e coscienza costante delle altre rende possibile il cogliere delle contraddizioni: ciascuna donna in autocoscienza è soggetto che si pensa narrandosi e al tempo stesso soggetto contraddicente, uno specchio vivente e pensante, che non riflette in modo deformato ma che richiama a uno sguardo più attento quando l’altra si adagia nelle autodifese. È proprio da una pratica separatista stabilmente abitata e vissuta che è possibile rendere politico ciò che emerge nel farsi dell’autocoscienza; è la stabilità dello scegliersi come soggette pensanti a rendere possibile, poi, la resa scritta, poiché la scrittura è per me la foce naturale di questa pratica e fa aderire il pensato al vissuto una volta che le contraddizioni hanno trovato una risoluzione discorsiva e con essa la politica. L’autocoscienza è l’altra, ma la mia avventura sono io. Non posso che concludere questa brevissima riflessione con un pensiero per le amiche divergenti con le quali condivido e/o ho condiviso questa pratica: Alessandra, Angelica, Anita, Caterina, Claudia, Daniela P, Donatella, Elisa, Francesca M, Francesca S, Letizia, Maria, Roberta, Susanna, Valeria B., Valeria Q.