Ci sono due donne sulle quali si esprime con giudizi opposti: Virginia Woolf e Simone de Beauvoir.
“Appartengono a due esperienze differenti. Virginia sembrò darci un’idea della donna vista dall’interno. Simone esteriorizza, ne parla come farebbe una mentalità maschile. Quando lessi Il secondo sesso non capivo a chi volesse rivolgersi. Non mi emozionai leggendolo. Spirava un vento freddo in quelle pagine che mi gelarono le dita. Oltretutto, mi insospettiva l’immagine che dava di sé: accanto a Sartre, incorniciata da certi ridicoli turbanti, come una signora intelligente della buona borghesia, destinata a governare un salotto letterario”.
E la Woolf?
“Intanto era bellissima. Conobbi bene la nipote Angelica Garnett, figlia di Vanessa Bell. Andai a trovarla dove viveva, in un villaggio della Provenza. Ci vedemmo nella piazza del paese. L’attesi seduta a un caffè. Arrivò radiosa e mi condusse a casa. Un bel giardino e poi notai le pareti affrescate di suoi disegni e una grazia nel portamento snello. Somigliava in maniera impressionante a Virginia. Lo stesso volto allungato, il naso che sembrava una piccola spada e gli occhi. Occhi grandi, chiari e sempre spalancati sullo stupore del mondo”.
Cosa pensava della zia, del suo suicidio?
“Credo che avesse messo quell’episodio tragico tra parentesi. Non ricordo nessuna allusione. Del resto, era poco più che ventenne quando la Woolf morì. Allora non sapeva che fosse una grande scrittrice”.
Però era vissuta in un ambiente di artisti, in quel clima di Bloomsbury dove ciascuno, come in una meravigliosa recita, interpretava una parte.
“Bloomsbury era una garanzia di creatività e libertà tra le persone”.
Libere e promiscue.
“Cosa intende?”
Mi pare che Angelica era nata da un unione illegittima tra Vanessa Bell e Duncan Grant. Vanessa era infatti sposata a Clive Bell. La promiscuità è che tutti andavano con tutti. Sessualmente viaggiavano senza passaporto. E in seguito Angelica sposerà lo scrittore David Garnett che era stato l’amante di Duncan Grant.
“Era una comunità sessualmente molto libera, dove le donne avevano un ruolo tutt’altro che subordinato”.
Lei perché volle incontrare Angelica?
“Perché era l’ultima testimone diretta di quel mondo nel quale aveva conosciuto tutti. Fu generosa e quando le dissi che avrei volentieri pubblicato il saggio Le tre ghinee – che io considero tra le cose più belle che Virginia Woolf abbia scritto – fu molto felice. In quel libro profetico, che uscì nel 1938, insieme all’imminente tempesta che avrebbe sconvolto l’Europa, si percepiva il ruolo fondamentale che Virginia assegnava al movimento delle donne”.
C’è qualcosa di analogo tra le scrittrici italiane che le abbia suscitato gli stessi sentimenti?
“No, la Woolf fu un caso di ineguagliabile talento nella scrittura e profonda visione sociale. Però una scrittrice italiana che mi ha affascinato è stata Anna Banti. Apparentemente quanto di più distante dal mio mondo. Era la moglie di Roberto Longhi e per avere un contatto con lei mi rivolsi a Cesare Garboli. Ricordo che Cesare mi invitò a pranzo in un ristorante dalle parti di Viareggio, dove viveva. Passammo un paio d’ore in cui brillò per intelligenza e teatralità”.
Era certamente lui.
“Alla fine mi sorprese, perché dopo aver chiesto il conto pregò il cameriere di preparargli un cartoccio con i resti del pesce. Se lo mise in tasca e tornammo verso casa. Dove ad accoglierlo c’erano cinque o sei gatti, ai quali distribuì gli avanzi. Fu Cesare a mediare il mio incontro con la Banti. Avevo letto il racconto Lavinia è fuggita, tanto bello da reggere perfino il confronto con la Woolf. Le spiegai l’intenzione di voler pubblicare una sua raccolta di racconti. Alla fine, dopo qualche perplessità legate al fatto che Mondadori preparava un Meridiano su di lei, accettò”.
Mentre parlava pensavo che è sempre difficile stabilire il grado di autonomia di una donna, o magari di un uomo, dentro una coppia. La Banti scrittrice mentalmente molto libera costruì un muro di protezione attorno a Longhi.
“Credo che sapesse essere molto autonoma e al tempo stesso protettiva. Non dimentichi che era nata alla fine dell’800, allevata nei valori della borghesia, da cui in parte ha saputo emanciparsi. Quando la incontrai vidi una donna che aveva saputo dare un senso nuovo alla parola solitudine”.
Cosa vuole dire?
“Di solito la donna sola è sempre un po’ compianta. È senza qualcosa. La solitudine ha anche il suo lato positivo. Dopo anni vissuti in famiglia la si può apprezzare e non esserne vittima perché ci manca qualcosa o qualcuno. La solitudine per me è disporre del proprio tempo, dei propri desideri. Essere se stesse”.
L’accosterebbe dunque alla vecchiaia?
“Non necessariamente, anche se è facile che le due cose camminino insieme. Nella vecchiaia si allentano o si perdono tutti i legami precedenti: sei stata figlia, poi moglie e infine madre e magari nonna. La vita per un lungo tempo è affollata di presenze. Poi, a un certo punto, si perde questa folla e si entra in una nuova dimensione. La vecchiaia è una stagione con le sue particolarità”.
Tra queste c’è anche la riscoperta della fede?
“Per quanto mi riguarda mi interessa molto di più la laicità. La religione è stata per lungo tempo per me una cosa quotidiana. Presente nella scuola, soprattutto. Poi ne ho capito il folclore. E lì l’ho abbandonata”.
Cos’è l’amore per lei?
“Credere nel sentimento amoroso ma non nel sentimentalismo”.
Ha figli?
“Due e vari nipoti”.
Perché “femminista distratta”?
“Perché non sono metodica. Seguo l’ispirazione del momento. E spesso mi distraggo”.
Un antidoto contro la noia. Ha paura di annoiarsi?
“La noia, quella profonda, è un sintomo del fatto che le cause in cui credevi non erano poi così interessanti. Quel tipo di noia non mi ha afflitto. Non ho rimpianti né pentimenti. Ho vissuto da donna e da femminista. Due condizioni che hanno trovato un corretto equilibrio”.
(Repubblica, 28 febbraio 2016)