L’assenza di ascolto che ci rende sorde a noi stesse
Daniela Santoro
24 Ottobre 2023
Quando in redazione si è iniziato a parlare di un possibile incontro sull’autocoscienza io, in quanto “Compromessa” e avendo più volte in questa sede parlato della mia pratica di autocoscienza – come ho imparato, successivamente, a chiamarla e a riconoscerla – e dei suoi effetti sulla mia quotidianità e sulla mia vita politica femminista, non ho potuto che accogliere questa proposta con un sorriso a trentadue denti (direi trentuno, visto che me ne manca uno).
Abbiamo dunque pensato potesse essere interessante indagare sul mondo virtuale, usando nello specifico le followers della pagina Instagram @lecompromesse come cartina tornasole, cosa le giovani donne di oggi definiscono autocoscienza, se la praticano o meno e soprattutto i motivi dietro l’una o l’altra scelta. Così, ho lanciato un piccolo questionario sulle storie di Instagram, chiedendo se le donne tra i nostri seguaci praticassero o meno autocoscienza, in che modo si sentissero vicine alla pratica e qualora non la praticassero, i motivi.
Le risposte non sono tardate ad arrivare, accumulandosi fino a una cinquantina. Sebbene ciascuna seguace sia apparsa consapevole del termine e della pratica stessa, quasi nessuna ha risposto affermativamente, eccetto un gruppetto di amiche che si incontrano mensilmente e che si possono contare sulle dita di una mano.
Alla domanda «Se non praticate autocoscienza, vorreste praticarla?» le ragazze hanno tutte risposto di sì, con però alcune remore. Ho riscontrato infatti una parola ricorrente, paura, accostata a un’altra parola – che possiamo ritrovare nelle introduzioni di Linda e Marta – fiducia. È come se si delineasse una sorta di paura verso una fiducia mancata, che diventa un deterrente di fronte alla pratica dell’autocoscienza.
«Sì, vorrei ma ho paura, sono un po’ diffidente», «Vorrei, ma non so cosa aspettarmi, non saprei neppure da dove partire», «Vorrei, ma al momento è come se non avessi trovato un gruppo che faccia al caso mio, di cui fidarmi»: c’è un bisogno forte nelle giovani donne come me di ripartire dal primato della parola e della propria personale esperienza che si fa parola e di conseguenza pratica politica.
In un mondo ormai puramente visivo, sentiamo la necessità di riconnetterci alla parola. Eppure, ne abbiamo paura. A mio avviso, il timore scaturisce dalla consapevolezza della nostra difficoltà di ascolto, anzi di una vera e propria incapacità di ascolto a cui la nostra generazione è stata educata.
Questa mancanza di ascolto – che è in primis una sordità verso noi stesse, verso il nostro corpo, verso le nostre emozioni – ci conduce a un’impasse: come possiamo dunque accettare noi stesse[1]? Così in questa non-accettazione c’è insita una dis-conoscenza del proprio essere, del proprio corpo, della quale un senso generale di sfiducia è una naturale conseguenza. Non avendo fiducia in sé stesse, è infatti possibile riuscire a fidarsi degli altri? Soprattutto: nel mio procedere quotidiano, a testa bassa e con i tappi nelle orecchie, come posso ascoltare gli altri? Senza ascolto non c’è parola, senza parola rimaniamo immagini passive al di fuori delle logiche relazionali. Logiche sulle quali l’autocoscienza si fonda. Logiche che sono – fuori dai denti – spaventose: come il conflitto, che diventa inevitabile in uno scambio denso tra ascolto e parola, dal quale, sopraffatte dalle nostre insicurezze, fuggiamo continuamente.
Siamo sole, bombardate da immagini e suoni che viviamo passivamente e che, involontariamente, ci plasmano e ci condizionano secondo logiche che non ci appartengono, logiche del mercato, capitalistiche e maschili. Viviamo senza un punto focale che sia nostro. È come se tutti i nostri sensi fossero perennemente ovattati e non fossimo mai presenti, con noi stesse, con i nostri rapporti, con il presente che ci circonda. Byung-Chul Han nel suo saggio La società della stanchezza, parla di “violenza neuronale” nel luogo di disturbi come la depressione e l’ADHD (disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività) e li associa alla “positivizzazione del mondo”, in quel passaggio da società disciplinare a società della prestazione. Siamo diventate animal laborans, vittime e noi stesse carnefici, incapaci di accedere a quella vita contemplativa che pratiche come l’autocoscienza ci richiedono, poiché quelle stesse dinamiche continuano a spingerci verso una vita automatica e disumanamente stimolata.
Il timore dell’autocoscienza è quindi paura dell’ignoto emotivo e incapacità relazionale allo stesso tempo, figlie entrambe di questa perpetua solitudine iper-stimolata. Eppure, in un momento come questo, praticare autocoscienza sembra ai miei occhi essere l’unica soluzione per sfuggire al logorio della vita moderna, partendo dal primato della parola ed esercitandoci all’ascolto, alla fiducia e alla condivisione delle esperienze per superare le barriere della solitudine tardocapitalista che ci stanno trasformando, donne e uomini, in umani-cyborg.
[1] Per dissipare ogni dubbio: quando parlo di “accettazione” la individuo in senso costruttivo, e non faccio riferimento a un’accettazione passiva – ormai frequentemente sponsorizzata – che ha invece effetti distruttivi sul piano personale e politico.