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da Rivista Studio

Quando il filone del parenting sembrava ormai completamente spolpato e esaurito, arriva Amanda Hess, giornalista del New York Times esperta in cultura digitale, con un libro, Un’altra vita (Einaudi), pieno di idee e pieno di vita sul diventare genitori in un mondo mediato dalla tecnica, dalle app e dai social network.

Il rapporto della futura mamma Hess con il Panopticon di internet inizia già prima della gravidanza, quando un’app di controllo del ciclo, che poi si scopre essere stata sviluppata da un gruppo di informatici maschi, inizia a soffiarle nell’orecchio a proposito di finestre di fertilità e concepimento programmato: proprio a lei, che sul Nyt scriveva fieramente della scelta di non avere figli, e che alla fine si fa fregare da quel subdolo condizionamento. Una volta incinta, è il test del Dna fetale, una tecnologia che è ormai un must tra le gravide del suo ceto sociale, a farle scoprire che forse aspetta un bambino con una rara malattia genetica, possibilmente causata dagli ansiolitici di cui faceva uso per intervistare maschi stronzi del jet set. La diagnosi la fa entrare in un loop di ansia e senso di colpa, che dopo la nascita di un bambino con sindrome di Beckwitth-Wiedeman, verranno opportunamente gestiti da un corollario di dispositivi – non solo medici, come la macchina dell’ossigeno – ma anche commerciali, o come dicono certi utenti sciccosi. C’è Snoo, la culla collegata a un’app che dondola da sola e manda direttamente nel lettone dei genitori un grafico azzurro o rosso a seconda della qualità del sonno del neonato, nonché un relativo pagellino che i più fanatici condividono con l’hashtag #snooporn. Ci sono la calzina Dreamsock della Owlet per misurare battito cardiaco e saturazione, e la fascia per il torace della Nanit con relativa videocamera, moderne schiave robotiche a controllare tutto il tempo che il bebè non smetta di respirare.

La mercificazione dell’attività di cura

Non sono solo le mamme come Hess, il cui figlio corre il rischio reale di soffocamento, a far ricorso a questi oggetti (che peraltro non hanno nessun reale riscontro in campo medico). Sono soprattutto i genitori di bambini sani. Tutti questi dispositivi, figli dell’ossessione contemporanea del tracciamento dei parametri fisici, fanno leva sull’ansia crescente di genitori sempre più soli.

Hess ripete più volte il vecchio adagio secondo il quale per crescere un figlio ci vuole un villaggio. Ma, aggiunge, citando la descrizione di una pagina Facebook di neogenitori, che «in quest’era digitale non tutti abbiamo a disposizione dei veri villaggi a cui appoggiarci, quindi cerchiamo online consigli, un senso di comunità e suggerimenti sui prodotti migliori». Harvey Karp, il pediatra che ha scritto The happiest baby on the block, ha detto al New York Times che «il modello del villaggio non è solo rose e fiori perché tutti si fanno gli affari tuoi e bisogna avere a che fare con parenti antipatici». E Leah Plunkett, esperta di privacy digitale minorile di Harvard, conferma che le tecnologie «si vendono perché eliminano il disagio delle relazioni interpersonali». Hess ci mette in guardia: i dispositivi, proponendosi come soluzione alla perdita della vita comunitaria, rappresentano in realtà la pura mercificazione dell’attività di cura.

Nel momento in cui l’autrice partorisce, tutte le applicazioni per gestanti che aveva scaricato hanno già venduto i suoi dati a centinaia di aziende che non vedono l’ora di solleticare bisogni fantasiosi e inediti nella storia della puericultura. «Per il capitalismo consumista», spiega Hess «il vertice della forma femminile è il parto: le aziende a quel punto ti accarezzano e ti portano per mano fino alla tomba». Man mano che Hess cerca su Google risposte al problema di suo figlio, nato con una grossa lingua che gli pende dalla bocca, viene profilata come un tipo particolare di mamma e a quel punto indirizzata verso consumi e gruppi specifici. Il suo feed di TikTok si riempie di medical mum che narrativizzano le loro storie di sofferenza, e di donne deluse dalla medicina convenzionale che si dedicano al freebirth, il parto in casa senza sostegno ostetrico. Durante la stesura del libro, Hess va a trovare molte di queste donne in giro per l’America e racconta le loro vere storie dietro alla maschera virtuale e le loro posizioni estreme rispetto alla tecnologia medica, per la quale lei prova sentimenti ambivalenti: il rancore di averle sbattuto in faccia infaustissimi dati prenatali, e la gratitudine per averla preparata ad accudire quel figlio. Hess fissa la cannula alle narici del piccolo, allatta e guarda le storie di altre madri sopraffatte. Appoggia il bambino nel letto smart e poi lo osserva sul monitor, scorre feed di famiglie simili alla sua e googla continuamente le sue angosce. Nel frattempo, la tecnologia la sovraespone anche a un’altra violenza, quella di vicini senza figli che al minimo vagito le mandano messaggi orribili che la fanno sentire inadeguata: non li ha mai visti, ma è convinta che non si esprimerebbero con tanta aggressività se dovessero dirle le stesse cose faccia a faccia.

Contro la genitorialità prescrittiva

Questo saggio, pieno di tic che conosciamo bene e di risvolti alla Black Mirror, muove da un’analisi critica sulla pervasione delle tecnologie nelle nostre vite intime, ma arriva a conclusioni molto più larghe, che rivendono l’intero concetto del parenting a partire dal primo grande libro fondativo, The common sense book of baby and child care del dottor Spock, del 1946, che vendette 50 milioni di copie. Spock premetteva che non servono tanti manuali per crescere un figlio, basta il buon senso. Ma poi partiva con le sue istruzioni, contraddicendosi subito. Da quel manuale in poi, siamo stati immersi in un tipo di genitorialità prescrittiva che nel tempo si è prestata sempre meglio a far dilagare i meccanismi capitalistici.

«Mentre noi Millennial crescevamo, la nostra identità si è fusa con la domanda neoliberista di ipercompetizione. Una possibile reazione è stata preparare ansiosamente i nostri figli al successo interpretando la genitorialità come una seconda carriera». Negli ultimi trent’anni, secondo Adam Gopnik del New Yorker, «il concetto di genitorialità e l’industria multimiliardaria che lo circonda hanno trasformato la cura dei bambini in uno sforzo ossessivo, soggiogante e orientato agli obiettivi, volto a modellare un particolare tipo di bambino che diventerà un particolare tipo di adulto. Eppure, questa ossessione ha completamente fallito nel migliorare la vita dei bambini».

Con tutto quel che c’era da fare per essere all’altezza della missione, essere una buona madre ha smesso di comprendere le ore passate effettivamente coi figli. A un certo punto, Hess si accorge che il rapporto col suo bambino era stato sostituito in qualche modo dal rapporto coi dati che lo riguardavano, in una specie di gamificazione del neonato. Una sera, quando ormai l’apparecchio per l’ossigeno è stato archiviato da un pezzo, Hess si stende accanto al figlio e per la prima volta si accorge del puntino rosso che incombe gravemente sul suo sonno: un occhio foucaultiano. È quella notte che si alza, spegne la lucetta fastidiosa, stacca la presa della telecamera e la ripone per sempre nella sua scatola.