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da Biblioteca delle donne – UdiPalermo

È possibile una rivoluzione che dall’arte si estenda al mondo e sovverta il pensiero dominante.

È possibile una rivoluzione intellettuale che sfidi il paventato ritorno a tempi bui e riconosca “definitivamente” i diritti conquistati dalle donne con la parola e la ribellione non violenta.

Quelle conquiste oggi sono sotto assedio, a noi il compito di alimentarle.

Al di là delle piccole o grandi rivoluzioni che molte donne accendono nei propri ambiti territoriali: nel lavoro, in famiglia, nella società, sento possibile un coro unanime di voci che si alzi dall’infamia per risalire le vette inesplorate della nobiltà dei cuori, della sensibilità dell’anima, dell’humanitas e della pietas.

Ma le voci sembrano silenziose, inghiottite da una costante, progressiva eclisse. Ecco perché – qui e ora – desidero ricordare un’artista che ha reso la “voce” e la musica veicolo per assurgere ai valori simbolici delle grandi rivoluzioni.

Il campo dell’arte ha la vastità degli oceani; ne ritaglio un rivolo per rendere onore a quella voce e al respiro musicale che raggiunge le sommità della poesia e agita la terra, come l’aratro quando libera le zolle incatenate tra loro.

In una società come quella americana che negava agli/alle afroamericani/e la dignità e l’uguaglianza, le grandi cantanti blues come Nina Simone, Bessie Smith, Billie Holiday e altre davano visibilità all’intima e personale esperienza “blues” della propria vita e di quella della comunità nera; quelle artiste divennero simbolo di lotta e contribuirono in modo dirompente ad indicare un lento e difficile processo di emancipazione.

Sento prepotente il desiderio di ricordare Billie Holiday (nata a Philadelphia il 7 aprile 1915) non solo perché è una delle voci più grandi di sempre del panorama jazz e blues, ma anche perché è stata la prima a esporsi contro le crudeli forme di violenza verso il popolo nero. Nessuno/a più di lei conosceva la sofferenza. A soli dieci anni fu violentata e, giudicata corrotta, rinchiusa in un riformatorio. Da lì fu facile diventare prostituta e poi, per caso e per fortuna, essere assunta come cantante in un locale di Harlem.

Nel 1939 il cinema celebrava una pacifica coesistenza tra bianchi e neri con il film Via col Vento, ma la verità era un’altra. Le tragedie del razzismo, causate in gran parte dal Ku Klux Klan, vengono portate in musica da una canzone dal testo crudo e straziante cantato dalla voce sofferta di Billie. Nessuna casa discografica, all’inizio, accetta di pubblicare il brano. La cantante, però, crede nel potere di quelle parole e continua a cantarlo.

Strange fruit parla dei/delle neri/e linciati/e, penzolanti come “strani frutti” dagli alberi. Il testo ruota intorno alla metafora della gente nera impiccata. La canzone venne successivamente definita come “la prima significativa protesta in parole e musica, il primo lamento non tacito contro il razzismo”.

La diffusione di Strange Fruit è importante non solo perché segna una svolta fondamentale contro il razzismo imperante, ma anche perché riesce a connettere elementi di protesta e di resistenza, al centro della cultura musicale del popolo nero, con un processo di legittima riappropriazione delle origini africane.

A New York lo spettacolo sta per terminare. Nel silenzio assoluto Billie canta Strange Fruit. La canzone vola fino ai piedi degli alberi del sud, quelli insanguinati sui tronchi, sulle foglie, sui rami fino alle radici. Lady Day, così era chiamata Billie, con la gardenia bianca tra i capelli, canta davanti al suo pubblico che applaude incantato. Ancora non sa che per troppe volte le impediranno di cantare e di incidere quella canzone.

Non è per caso che proprio un uomo, lo scrittore Stefano Benni, abbia scritto di lei:

E quando tornerete a casa dite
Ho sentito cantare un angelo
Con le ali di marmo e raso
Puzzava di whisky era negra puttana e malata
Dite il mio nome a tutti, non mi dimenticate
Sono la regina di un reame di stracci
Sono la voce del sole sui campi di cotone
Sono la voce nera piena di luce
Sono la lady che canta il blues
Ah, dimenticavo … e mi chiamo Billie.