La necessità di saper esserci in un mondo iperconnesso
Traudel Sattler
15 Giugno 2021
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 Digitare non è mai neutro, domenica 6 giugno 2021
Sappiamo di vivere in un’epoca di “trasformazione digitale” non perché lo ha proclamato l’Unione Europea, che per questa mette a disposizione ingenti somme. Lo sappiamo perché l’abbiamo vissuto sulla nostra pelle, in modo particolarmente intenso in quest’ultimo anno.
Da tempo, Via Dogana ha un occhio attento al nostro rapporto con le tecnologie, con l’incontro Ragazze e Algoritmi nel 2016, e La rete è nella nostra realtà. Come starci? nel 2017. Già da questi incontri abbiamo ricavato la consapevolezza che non esiste un’inimicizia tra le donne e il mondo digitale, anzi, esiste un’intensa attività di femministe in rete, e oggi tante donne lavorano con passione in questo settore, sappiamo anche che si è sviluppata una critica femminista all’approccio universale e fintamente neutro delle modalità di progettazione, per esempio degli algoritmi. Ma quando abbiamo intitolato l’ultimo di questa serie di incontri, esattamente due anni fa, Fare di necessità libertà – in rete, non potevamo immaginarci con quale forza si sarebbe imposta la necessità di saper esserci in un mondo iperconnesso, un processo accelerato e condensato dalla pandemia. Si sono aperte molte contraddizioni, come quella messa in evidenza da Ida Dominijanni che diceva: “Il tema si annuncia fra quelli che domineranno il dibattito pubblico del dopo-pandemia, perché da un lato il capitalismo farà dell’investimento tecnologico la principale leva di risparmio dei costi e di intensificazione dello sfruttamento del lavoro, dall’altra le resistenze antitecnologiche assumeranno toni sempre più apocalittici” (L’io alterato, www.libreriadelledonne.it, #VD3, 25 maggio 2020).
Inoltre sono convinta che quest’anno ha lasciato nelle nostre vite segni profondi che vanno ancora indagati e nominati. Se penso solo a come ho vissuto il primo impatto con la didattica a distanza: ero piena di angoscia per la nuova piattaforma e assolutamente scioccata di fronte alle facce tese delle studentesse durante gli esami, riprese a 20 cm di distanza. Mi sembrava una violenza, per non parlare dell’intrusione, tramite la webcam, nelle camere delle studentesse. Con la paura permanente di dare tutta questa umanità in pasto ai Big Data.
E ora? Mi sono resa conto, allarmata, che ho perso quella sensibilità, ho registrato una vera e propria alterazione sensoriale che mi sbalordisce. So che l’essere umano si adatta alle circostanze, ma sono rimasta colpita dalla facilità con cui avviene. Penso che ci vuole una riflessione e una presa di coscienza su che cosa perdiamo. Dov’è la soglia critica che non bisogna perdere di vista? Certo, ho continuato a sentire forte la mancanza dell’interazione diretta in aula, la possibilità di muovermi nello spazio e del poter andare verso l’altro, entrare in contatto con lo sguardo, incoraggiare con un gesto. Ma in ogni modo mi sembra che anche le studentesse e gli studenti, diversamente dall’anno scorso, si siano adattati ai nuovi rituali, anzi sono loro che stanno bene attenti che la lezione venga registrata così come impone l’università. E queste riprese video mi hanno rivelato che ero assolutamente inadeguata alla situazione. Non avevo valutato che stare davanti alla webcam richiede una auto-messa-in-scena: inquadratura, luci, angolatura giusta. Rivedendo la mia faccia talvolta tagliata a metà ho temuto di perdere la fiducia delle e degli studenti e persino l’autorità. Ma il continuo rispecchiarsi nella propria immagine mi toglie la spontaneità e autenticità che caratterizzano l’interazione dal vivo. Questa diffusa mancanza dell’esperienza viva, non solo mia, non poteva non essere intercettata dai produttori di software didattici che si sono precipitati a ricreare le esperienze in presenza, attraverso programmi di scrittura di testi collettivi, giochi, lavori in piccoli gruppi – tutto online. A parte il grande business che si è creato, non li rifiuto per principio: li ho usati anch’io, pur di rompere la comunicazione fortemente monodirezionale. Ma alla fine non rischiano di sostituire la vita in presenza? Me lo sono chiesta quando ho sentito dire: “Perché dovrei pagarmi una stanza per 600 € a Milano mentre posso studiare online da Sondrio?” Oppure: “Perché alzarmi all’alba e fare 80 km sul treno per raggiungere l’università?”
Ho parlato della mia esperienza, ma questa esposizione improvvisa al potere della tecnologia ha investito l’intera impalcatura della vita quotidiana di tutte e tutti: è stato uno shock culturale per chi si è trovato a dover gestire piattaforme e app nuove per affrontare il lavoro da casa, il rapporto con l’amministrazione pubblica, la sanità, le riunioni politiche, persino le relazioni intime. Certo, non è stata una svolta improvvisa in quanto tutti gli strumenti erano già stati predisposti da tempo, il nuovo è costituito dalla loro irruzione capillare. Mentre prima sembrava che ci fossero ancora zone franche si è dovuto registrare che ormai tutti gli ambiti della vita quotidiana erano precipitati nell’immaterialità, e districarcisi è diventata quasi una questione di sopravvivenza. In parecchie ci sentivamo smarrite; c’è anche chi ha espresso un forte senso di inadeguatezza nell’affrontare la propria vita in questo mondo. Una della redazione ha detto: Quando si parlava, nel passato, dell’oppressione delle donne, io non mi sentivo oppressa, adesso invece sì. E un’altra: Ci ho messo anni per sottrarmi al potere e al controllo paterno, ed è proprio per questo che non tollero la sorveglianza!
Per me rimane una questione aperta: Come sottrarsi allo strapotere delle grandi aziende tecnologiche che si prendono il diritto sulla vita degli esseri umani sfruttandoci come materia prima gratuita da cui estrarre dati comportamentali? Dopo aver letto il testo fondamentale di Shoshana Zuboff Il capitalismo della sorveglianza (2019) in me era emersa la paura, poi da allora oscillo tra un atteggiamento di cinica rassegnazione, rimozione e vigile attenzione. Mi manca la misura.
Ho registrato che anche nel dibattito pubblico è aumentata la preoccupazione per la pervasività della sorveglianza (Golpe digitale, un lungo articolo di Zuboff apre la rivista Internazionale n. 1404 del 9 aprile 2021; Algoritmocrazia il titolo dell’ultimo Festival dei diritti umani, 21-23 aprile 2021).
Cresce quindi il senso di doversi difendere, lo suggeriscono le parole che circolano a proposito dello strapotere dei colossi tecnologici: arginarlo, delimitarlo, difendere la competenza umana. Ma io penso che mettersi sulla difensiva non ci porti avanti. E poi: con quali mezzi? Si procede attraverso leggi e commissioni etiche. Già nel 2018 l’Unione europea aveva formato un gruppo indipendente di esperti per elaborare “Orientamenti etici per un’IA affidabile”, e un mese fa la Commissione ha presentato un disegno di legge per delimitare il campo d’azione dell’IA. Perché l’IA deve essere “etica” e “i cittadini meritano tecnologie di cui possono fidarsi”, ha dichiarato Ursula von der Leyen. Solo che questo disegno di legge deve fare un iter parlamentare, i regolamenti vanno adottati dagli stati membri e io temo che quando sarà diventato legge, sarà già obsoleto. E la fiducia che si augura la presidente della Commissione, dubito che si produca.
Più efficaci si sono rivelate le esperienze di lotta nel settore della logistica dove le lavoratrici e i lavoratori, come i Rider oppure i dipendenti Amazon, hanno imposto la misura del corpo umano contro il regime imposto da algoritmi impostati a loro volta da chi mira solo alla velocizzazione e all’aumento del profitto.
Inoltre, l’imprescindibilità dei corpi e della loro presenza è stata messa in luce in particolar modo anche da studenti e studentesse che hanno chiesto di tornare a scuola perché le lezioni online erano alienanti e lasciavano fuori una parte centrale dell’esperienza viva.
Tutte e tutti abbiamo quindi alle spalle più di un anno di esperienze in questi ambienti virtuali, e si pongono interrogativi anche per la pratica politica: qui in Libreria si sono spostate online le riunioni del sito, gli incontri di Via Dogana, presentazioni di libri e discussioni. Abbiamo partecipato a innumerevoli webinar e conferenze online. Tutto questo ci ha permesso di non interrompere le nostre attività regolari, le discussioni, la scrittura, la selezione e pubblicazione di testi. E voglio sottolineare come si è confermata, in questa esperienza, l’importanza della parola scritta nella pratica politica. Gli incontri online invece ci hanno permesso di allargare lo scambio a donne e uomini che stanno fisicamente lontano. Abbiamo visto guadagni e limiti e abbiamo sentito anche valide argomentazioni contrarie: è nato un acceso dibattito. Siamo consapevoli che zoom e altre piattaforme sono ben più che strumenti di comunicazione, ma ambienti che incidono sulla nostra percezione della realtà e sulla nostra autopercezione. Dico solo: quando mai nella vita in presenza, ti rispecchi in continuazione mentre parli con altri/e?
Invece tanta invenzione nella pratica del movimento delle donne si è basata sullo specchiarsi nell’altra, sulla frizione del corpo-a-corpo che ha messo in luce la necessità di un terzo, di una mediazione che spesso ha preso la forma di un progetto materiale.
Possiamo trovare nuove mediazioni anche nell’incontro virtuale?
Tanta invenzione è anche nata dall’irrompere dell’imprevisto, dall’eccedenza, di una parola mai sentita prima.
Per come l’ho vissuta io, la coreografia programmata della conferenza zoom questo non lo permette: si interviene per alzata di mano o prenotandosi via chat; chi gestisce l’incontro ha il potere di dare e di togliere la parola. E non basta: ora constatiamo che sono proprio loro, le più giovani e tecnologizzate che hanno scommesso sulla pratica politica in rete e l’hanno portata avanti con passione, coinvolgendo altre, a essere assorbite dalla gestione tecnica degli incontri, che sembra ridotta a un servizio, e così rischiamo di perdere il meglio del loro spessore politico.
Di queste contraddizioni e interrogativi discutiamo oggi con Sara Bigardi di Diotima, che cura insieme a Diana Sartori la rivista online Per amore del mondo. Il taglio della differenza. Sara è presente con sua sorella Francesca, una giovane informatica.