La lingua italiana è una lingua sessuata
Carlotta e Silvia di Non Una Di Meno Milano
17 Dicembre 2018
«Il linguaggio non è solo un’istituzione sociale o uno strumento di comunicazione, ma anche un elemento centrale nella costruzione delle identità, individuali e collettive. La lingua italiana è una lingua sessuata, che già dalla sua grammatica riproduce e istituisce un rigido binarismo di genere (tra nomi, pronomi e aggettivi che cambiano a seconda se maschili o femminili) e una specifica gerarchia, in cui predomina il maschile, presentato come universale e neutro. In questo Piano abbiamo scelto di svelare la non neutralità del maschile utilizzando non solo il femminile, ma anche la @ per segnalare l’irriducibilità e la molteplicità delle nostre differenze. Consapevoli che le lingue mutano e si evolvono, proviamo a rendere il nostro linguaggio inclusivo per avere nuove parole per raccontarci e per modificare i nostri immaginari.»
Con queste parole si apre il Piano femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere che abbiamo prodotto in un anno di assemblee nazionali suddivise in tavoli che prendevano in esame diversi aspetti della violenza. Un Piano costruito in lunghe discussioni collettive, in cui il linguaggio è stato uno dei temi più trasversali: quali parole utilizzare per raccontarci? Quali scegliere per le nostre proposte?
Siamo consapevoli, infatti, che il linguaggio “ci” parla, tanto quanto noi parliamo una lingua: in questo senso le parole che usiamo e le forme che scegliamo danno linfa e nutrimento ai nostri immaginari. Parliamo un linguaggio che non abbiamo scelto, che si è sedimentato in millenni di pratiche linguistiche, ma su cui possiamo intervenire, nella costante ricerca di una lingua che sappia raccontare noi e le nostre vite. Per questo ci siamo interrogate a lungo sulle parole da usare nel nostro Piano, a partire dal titolo che ricorda che siamo femministe, ma anche che la violenza è maschile, intendendo con questo termine un maschile egemonico che dà forma anche alla violenza di genere, una violenza che colpisce chiunque si discosti dalle norme binarie dei generi.
I linguaggi che usiamo, però, non sono solo le parole, ma anche le immagini (e quando si parla di violenza diventa molto evidente, ad esempio con le immagini di coppie felici dopo i femminicidi) e i nostri corpi. Non è un caso che in Consiglio comunale a Milano, mentre si discuteva della mozione di Amicone contro la 194, sia stato il silenzio delle ancelle a scatenare rabbia e reazioni scomposte. I nostri corpi, forti e autodeterminati nelle piazze e nelle strade, sono già un segno, un linguaggio che cambia e che trasforma noi e il mondo circostante.
Proprio per questo i media rappresentano un duplice problema per Non Una Di Meno: da un lato per come i media raccontano, o meglio non raccontano, il movimento transfemminista, rendendo invisibile questa trasformazione; dall’altro per come raccontano la violenza di genere, narrazione che nel Piano abbiamo definito “tossica” perché ripropone e rinforza la narrazione patriarcale della violenza (“la vittima se l’è cercata”, “è stato un raptus di follia/gelosia/ira”, “lui era una brava persona”, “lui aveva problemi economici/di dipendenza”, ecc.).
La critica alla narrazione mediatica della violenza è un punto che abbiamo ampiamente trattato nel piano femminista, quello che si può aggiungere qui è una breve analisi di quanto è accaduto dopo la pubblicazione del piano, ossia il fenomeno del #metoo in Italia e la nostra esperienza diretta come soggetto politico.
Il #metoo è stato raccontato dai media italiani come se si trattasse di un caso individuale, quello di Asia Argento, che in questo modo ha subito una pesante rivittimizzazione e colpevolizzazione. Questo tipo di racconto non ha incentivato ulteriori denunce, o comunque l’emersione in altre forme del fenomeno della violenza sui luoghi di lavoro. Il #metoo dilagato sui social, anche nella versione italiana #quellavoltache, è stato sostanzialmente ignorato. La denuncia collettiva delle attrici «Dissenso comune» è arrivata con molto ritardo e ha preso parola contro il sistema, senza fare alcun nome specifico. Caso dunque molto diverso, quello italiano, rispetto all’equivalente fenomeno americano. Accanto alla fatica delle donne di prendere parola, sembra esserci un paese talmente assuefatto allo scambio sessuo-economico da considerarlo una cosa normale e una stampa in cui ancora prevale uno sguardo e un racconto maschilista.
Non Una Di Meno ha scelto di lanciare l’hashtag #wetoogether, al posto del #metoo, proprio per inventare una nuova parola che rendesse conto della necessità di farsi forza collettiva. La presa di parola individuale è stata ed è dirompente, capace di far crollare ipocrisie e facciate con la potenza della narrazione di sé, ma allo stesso tempo abbiamo sentito il bisogno di uno spazio di reazione comune. La società neoliberista nella quale ci troviamo a vivere, infatti, costantemente riproduce individualismo, enfatizzando la prestazione e spingendo ognuna di noi a farsi imprenditrice di se stessa, in una costante competizione in cui il fallimento è sempre una responsabilità individuale. In questo processo solipsistico il neoliberismo ha sussunto anche una parte del femminismo, raccontandolo e trasformandolo nell’esaltazione di un girl power che ancora una volta riguarda le singole e la loro capacità di farsi avanti, senza nessuna analisi strutturale. Per questo, con #wetoogether, abbiamo provato a raccontare non solo le forme di violenza subite, ma anche le resistenze agite insieme, costruendo alleanze che sappiano farci più forti per percorrere la strada di cambiamenti strutturali.
Ed è anche per questo che rivendichiamo la necessità di una postura intersezionale, che sappia farci vedere le trame intricate delle oppressioni che subiamo per saperle districare meglio. Vogliamo trovare parole che sappiano raccontare la molteplicità delle nostre vite, per fare davvero delle nostre differenze una forza che ci permetta di avere strumenti di liberazione più efficaci, senza il rischio di cancellare dei pezzi di noi stesse o delle altre.
Per quanto riguarda l’esperienza diretta come movimento politico che viene raccontato dai media, possiamo dire che, nonostante il miglior trattamento che ci riservano oggi i mezzi di comunicazione rispetto all’inizio del percorso di Non Una di Meno, diversi problemi ancora permangono. La carta stampata resta una roccaforte inespugnabile: è molto difficile che i maggiori quotidiani nazionali parlino del movimento, se non relegandolo in uno spazio marginale. Inoltre sono articoli che finiscono nella sezione cronaca locale oppure “costume e società”: Non Una di Meno non viene considerata un fenomeno politico e dei contenuti che porta in piazza si parla molto poco. Situazione migliore con il giornalismo online, su cui riusciamo ad avere più spazio e che ha iniziato a parlare anche dei contenuti politici del movimento. I servizi al TG sono altalenanti: la manifestazione del 24 novembre è stata coperta da tutti i telegiornali ma il TG3, che di solito fa dei buoni servizi, ha raccontato la manifestazione senza mai nominare Non Una Di Meno, ossia chi quel corteo l’ha organizzato e fatto vivere.
La scarsa considerazione e la svalutazione riservata al movimento femminista, quando non la sua cancellazione vera e propria, hanno fatto da subito sorgere nel movimento l’esigenza di autonarrarsi. I social networks sono gli strumenti che utilizziamo per veicolare i nostri contenuti politici e le nostre immagini, perché non si tratta solo di usare le parole giuste, ma anche di scegliere immagini e video che restituiscano la ricchezza delle nostre manifestazioni e azioni politiche. I social sono anche uno dei canali attraverso cui facciamo rete e costruiamo la partecipazione alle nostre iniziative. Pur consapevoli delle sue contraddizioni, è innegabile che la rete ci abbia fornito la possibilità di comunicare in tempo reale nonostante le distanze e anche degli strumenti per lavorare in modo collettivo e condiviso fino a qualche anno fa impensabili.
Certo, molto di tutto questo è già stato fatto, ma crediamo che rifare sia parte della storia delle generazioni politiche, un processo di ricostruzione in cui le esperienze già fatte delle altre diventano preziose proprio nel momento in cui ci si trova a dover rivivere situazioni simili in contesti mutati. Non abbiamo ancora trovato le parole giuste, forse, ma il lavoro stesso di cercarle ci permette di scoprire nuovi modi di raccontarci, di tessere legami e di darci spazio, in un corpo a corpo con la lingua e con le narrazioni su di noi che diventa un abbraccio a noi stesse e alle altre.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, La parola giusta ha in sè il potere della realtà del 2 dicembre 2018