La lettura come pratica politica
Laura Colombo
8 Aprile 2025
Al centro del Catalogo giallo c’è un’intuizione forte e radicale: l’invenzione della lettura come pratica politica. Mentre lo rileggevo in vista della redazione aperta di Via Dogana 3, ciò che mi ha colpito maggiormente è stata proprio questa intuizione, la lettura non più intesa come interpretazione o critica letteraria tradizionale, ma come creazione politica, gesto collettivo e trasformativo. Non si tratta di analizzare testi con teorie esterne ad essi o celebrare semplicemente la presenza delle donne nella storia; al contrario, leggere diventa un’azione che produce altri significati, è un atto di risignificazione del mondo e dell’esperienza delle donne.
La pratica politica della lettura è una rottura perché non si limita a considerare il libro come un oggetto neutrale da comprendere, ma come materiale da manipolare da parte della lettrice in relazione ad altre donne, per trovare tracce di un simbolico femminile che altrimenti resterebbe invisibile. Questo modo di leggere interroga direttamente la letteratura per far emergere ciò che parla davvero alle donne, anche là dove l’autrice afferma che “la scrittura non ha sesso”. Sessualizzare la scrittura, rileggendola con uno sguardo situato, rimane anche oggi un gesto politico potente e necessario.
Nel Catalogo si legge chiaramente che le scrittrici vengono “deformate”, “ridotte a una frase, a un’immagine, a un’invenzione linguistica”. È una dichiarazione forte, che rivela un’intenzione politica precisa, una strategia consapevole: invece di inseguire una rappresentazione oggettiva o fedele della letteratura femminile, le lettrici si appropriano dei testi – anche contro la loro stessa volontà – per costruire un discorso che parli del loro vissuto, delle loro domande, dei loro desideri. È un uso del testo che non obbedisce all’autorevolezza dell’autrice, né alla fedeltà filologica, ma all’urgenza di trovare parole vive, capaci di trasformare.
Il Catalogo giallo testimonia quindi una pratica che si distanzia da quella parte del femminismo che ha lavorato per dimostrare la presenza delle donne nella storia con l’obiettivo di ottenere pari dignità e riconoscimento. Chi ha scritto il Catalogo non voleva dimostrare che le donne ci sono sempre state, né chiedere di essere incluse in una storia già data; l’obiettivo era la trasformazione dell’esistente, non il riconoscimento nelle strutture socio-simboliche patriarcali.
La loro è una lettura parziale, situata, partigiana, cercano qualcosa che parli a partire da sé, dalla relazione con altre donne, dal vuoto come possibilità, non assenza. Come scrive Silvia Niccolai nella sua introduzione: «Il “vuoto” è la consapevolezza che l’esperienza, l’esistenza femminile non è, se la cerchi nel simbolico “dominante”, ma quando raggiungi questo vuoto non cadi nel nulla, perché il vuoto è anche un silenzio, il finalmente tacere delle definizioni, dei costrutti, delle missioni o dei valori affidati alle donne e in questo vuoto-silenzio finalmente puoi sentire qualcosa».
La lettura, così intesa, diventa un’invenzione collettiva e un’appropriazione sovversiva: il testo è usato, anche a costo di distorcerlo, per costruire una soggettività politica femminile che non si lascia imprigionare dalle regole del discorso dominante. Non è un’operazione neutra né rispettosa, essendo profondamente aderente alla necessità di vivere, dirsi e pensarsi al di là delle categorie offerte dalla cultura patriarcale.
Leggendo il Catalogo, emerge chiaramente che l’inclusione era proprio ciò da cui si voleva fuggire. Non si trattava di conquistare uno spazio in un mondo già scritto da altri, ma di inventare un mondo che rispondesse alla propria esperienza di donna. In quegli anni, il patriarcato aveva un volto preciso, identificabile, indiscusso: grazie all’emancipazione c’erano donne già incluse nelle strutture socio-simboliche dominanti, e contemporaneamente c’erano donne che, secondo tradizione, accettavano una posizione di subordinazione rispetto all’uomo. Era chiaro che le femministe della differenza non volevano collocarsi lì. Non chiedevano di essere incluse in un ordine che le escludeva per definizione. L’obiettivo era un altro: non ottenere un posto, bensì creare uno spazio altro capace di contenere, nominare e dare forma alla propria esperienza. Questa tensione verso “un altrove e un altrimenti” rendeva la lettura una pratica politica generativa, non semplicemente una rivendicazione.
Oggi ritorna la domanda sull’inclusione, e lo vediamo bene anche in occasione dei cinquant’anni della Libreria delle donne: più di un giornalista, in questi mesi, ha posto domande proprio su questa parola. Se ci mettiamo nella prospettiva di chi ha scritto il Catalogo giallo, la risposta è ovvia: nessuna inclusione in un mondo fatto dagli uomini e pensato dagli uomini. E però. Oggi tutto appare più complicato, paradossalmente più difficile rispetto a quel tempo in cui il “nemico” aveva contorni netti e riconoscibili. Oggi ci muoviamo dentro un paesaggio radicalmente modificato dalla rivoluzione femminista, e la parola “inclusione” è diventata insidiosa. È entrata a pieno titolo nell’agenda politica, producendo polarizzazioni estreme: da un lato figure come Trump cancellano con un tratto di penna intere soggettività dal corpo sociale – e infine le donne stesse, perché dietro queste operazioni di cancellazione c’è sempre il desiderio di mantenere intatti i privilegi dell’uomo bianco; dall’altro, i movimenti si frammentano in una miriade di rivendicazioni identitarie, in una sorta di ipertrofia dell’identità. La critica rivolta oggi al femminismo della differenza è quella di essere essenzialista e binario, quando in realtà è stato soprattutto un’affermazione radicale di desiderio e di politica.
Il paradosso è che ora ci troviamo in una posizione difensiva, logorante, costrette a difendere la possibilità di chiamarci donne, prendendo contemporaneamente le distanze da chi strumentalizza e polarizza il pensiero della differenza, in un contesto di pressioni continue, di domande identitarie che chiedono risposte definitive. Silvia Niccolai ha chiarito efficacemente questo punto, osservando che oggi ci troviamo di fronte a un “troppo pieno di identità” che ci tira per i capelli, che ci chiede continuamente di prendere posizione. La mia domanda è se oggi possiamo permetterci di non rispondere a queste richieste. Silvia Niccolai, nel dibattito, ha suggerito una possibile via di uscita: cambiare le parole, compiere una mossa per sottrarsi a questo cul-de-sac identitario.
Forse la sfida, oggi, è proprio questa: restituire forza politica al femminismo non come affermazione di identità essenziale, ma come istanza di libertà radicale, capace di creare uno spazio altro, in grado di accogliere l’esperienza e la soggettività di donne e uomini.