Judith Butler e la sua urgenza di scrivere
Luisa Muraro
17 Marzo 2017
Speriamo che, grazie al suo ultimo libro, L’alleanza dei corpi (Nottetempo 2017), Judith Butler non sia più causa di confusione nella mente di tanti: persone che volevano vedersi riconosciute anche politicamente nella loro differenza. E che nei libri di Butler hanno trovato una risposta, ma non sempre hanno capito il suo pensiero. I motivi di ciò sono più di uno, tra cui che la sua scrittura non è mai stata quel che si dice facile e, ancor più, che lei fa un uso molto esteso, secondo alcuni arbitrario, di una nozione specialistica, il performativo.
In questo libro continua a usarla, spiegando e rispiegando il suo significato della parola in questione. Secondo me, fa bene perché non vedo ancora tante alternative a questa astrusa parola, performatività, per quello che è in gioco. È in gioco che ci rendiamo conto come, da certe situazioni, da certe combinazioni di cose e parole, può sprigionarsi una forza simbolica che trasforma il reale, direttamente. Il che storicamente ha luogo; difetta però la consapevolezza di questa possibilità, che Butler chiama anche il potenziale performativo. Si tratta, in altre parole, di capire quella che io, noi, chiamiamo politica del simbolico (altra formula non facile).
Dobbiamo il titolo, L’alleanza dei corpi, al traduttore italiano, validissimo, Federico Zappino, che lo ricava fedelmente dal linguaggio dell’autrice, ma lo sostituisce al titolo del libro originale, retrocesso, con opportuna mossa, a sottotitolo: Note per una teoria performativa dell’azione collettiva.
Questo libro è, nell’insieme, più “facile” degli altri. Si sente che chi l’ha scritto vuole farsi capire eliminando certi equivoci e confusioni passate. Si sente anche che cerca nuovi destinatari. A un certo punto Butler dice: “sento l’urgenza di scrivere per un pubblico più ampio” (p. 196).
Chi erano i destinatari di prima? Nel sostenere che il genere fosse performativo, risponde lei stessa, ho voluto “contribuire a rendere le vite delle minoranze sessuali e di genere più possibili e vivibili, perché i corpi non conformi alle norme di genere , al pari di quelli fin troppo conformi (e ad alto prezzo), siano in grado di respirare e di muoversi liberamente” (p. 56).
Teniamo presente che l’attenzione verso le minoranze può essere un modo per parlare all’umanità di tutti. Si guarda verso quelli che non sono tenuti in conto per arrivare a fare luce su quello che c’è sotto e che agisce nell’operazione, tipica del potere vincente nei paesi a regime democratico, di istituire una maggioranza a spese di una o più minoranze. Fare che una minoranza diventi fonte di luce per tutti, è la sconfitta del potere. E Butler questo ha voluto fare. Ma qualcosa potrebbe non essere andato per il suo verso, che la porta a cercare nuovi destinatari. Secondo me, è stata la conquista dei diritti da parte di alcune minoranze, cosa buona in sé, che però ha svoltato verso una politica identitaria. La politica identitaria ha stoppato lo sviluppo del potenziale innovatore.
Ma il libro ha anche un importante movente positivo. Alla sua origine, infatti, c’è un’intuizione nuova, suggerita dalle inattese manifestazioni pubbliche di protesta che si susseguono nel decennio in corso. Quando i corpi si raggruppano nelle strade, nelle piazze o in altre forme di spazio pubblico, incarnano e prefigurano un agire politico che è ancora da pensare, e che va pensato, se vogliamo sottrarci alle condizioni imposte dai sempre più squilibrati rapporti di forza, e combattere contro la precarietà che ne consegue per molti, se vogliamo cioè concorrere alle condizioni di una vita degna (vivibile e buona) per noi e gli altri.
Con l’intuizione, che ho cercato qui di riassumere, siamo oltre l’obiettivo della conquista dei diritti. “Questi corpi, insieme, esercitano il potere performativo di rivendicare la sfera pubblica in un modo che non è ancora stato codificato giuridicamente e che forse non potrà mai esserlo appieno” (p. 122). Nella prossimità dei corpi, nel tra che li avvicina ma non li confonde, prende forma un nuovo agire politico. Il tra è il luogo della relazione, che può svilupparsi in rispondenza con il fatto che lo stato di dipendenza in cui nasciamo, ci costituisce dagli inizi come creature relazionali.
Sarebbe sbagliato leggere L’alleanza dei corpi come se fosse un voltare pagina rispetto alla passata produzione. Tutto il primo, lungo, capitolo mira a collegare il nuovo argomento agli scritti di “molti anni fa”, dedicati alla teoria secondo cui il genere sessuale è performativo. La preoccupazione principale, come ho già accennato, è di riscattare il concetto di performativo che è stato inteso male. Ha prodotto, nota in particolare l’autrice, “due interpretazioni contrastanti: per la prima, ciascuno si sceglie il proprio genere; per la seconda siamo tutti completamente determinati dalle norme di genere” (p. 101). È capitato anche qui in Italia.
Dalle ultime pagine di questo primo capitolo, non capisco come Butler giudichi i risultati dei suoi sforzi. C’è però un indizio significativo, ed è il suo invito alla “consapevolezza che i diritti hanno senso solo all’interno di una più ampia lotta per la giustizia sociale” (p. 115). Io la penso come lei, e cioè che, senza quella più ampia lotta, i diritti perdono il loro senso e diventano privilegi, in un batter d’occhio. (Tant’è che, a suo tempo, Simone Weil ci invitò a considerarli e chiamarli non diritti ma obblighi verso l’essere umano.)
Comunque la vediamo, questo interessante primo capitolo fa un’operazione poco appariscente ma preziosa, che è di farci intendere come non ci sia politica che non sia anche politica sessuale; Sexual Politics è il titolo di un libro inaugurale del movimento delle donne, apparso alla fine degli anni Sessanta.
Facendo l’operazione di congiungimento tra la sua passata ricerca sul genere sessuale e quella nuova sul comprendere il potenziale politico di azioni collettive, Butler si trova a ripercorrere vie battute dal movimento femminista. Del resto, lei stessa ha dichiarato anni fa: io sono femminista, né più né meno.
Il suo maggiore riferimento teorico esplicito, in questo libro, è Hannah Arendt e la sua dottrina secondo cui l’apparire sulla scena pubblica costituisce l’atto politico per eccellenza. Dottrina che Judith Butler riprende e critica al tempo stesso. All’importanza del riferimento corrisponde l’importanza della critica. “Divergo dal pensiero di Hannah Arendt, anche se attingo alle sue risorse per chiarire la mia posizione”. E continua: la prospettiva arendtiana è invalidata da una distinzione tra privato e pubblico che assegna la vita politica agli uomini e il lavoro riproduttivo alle donne. Nella sfera pubblica l’uomo appare come corpo maschile non dipendente da altri, “libero di creare ma non creato esso stesso, mentre il corpo della sfera privata è femminile, o vecchio, o straniero, o infantile” (p. 123).
Il movimento delle donne ha rivoluzionato questa sistemazione degli spazi e dei corpi con una radicalità che Butler riscopre (citando alcune pensatrici femministe, tra cui Adriana Cavarero) e rende attuale.
Penso alle prime riunioni di autocoscienza fra donne, in locali fortunosamente adattati: atto sovversivo allo stato puro, che ha cambiato dei significanti millenari e creato le condizioni della nostra, di donne, esperienza libera, senza fracassi di morte e distruzioni. Ecco uno squisito esempio di come agisce il performativo! Forse, Butler non ha conoscenza personale di quell’evento. In compenso, sa evocarlo: “La correlazione tra la performatività e la precarietà può essere riassunta da queste domande essenziali: in che modo chi non ha voce parla e rivendica le proprie istanze? Quale tipo di frattura crea questa rivendicazione nel campo del potere?” (p. 94). Per me, una frattura di quelle da cui non si torna indietro e che non si finisce di approfondire.
Le rispondenze che anche altre, come Rosaria Guacci e Alessandra Pigliaru, hanno avvertito tra questo libro e il movimento delle donne, nascono, io credo, non tanto dai fatti biografici, quanto dalla coincidente ricerca di forme nuove della politica. Ne ho avuto la certezza in quelle pagine che cominciano con queste parole: “È importante prendere in considerazione le forme di assembramento politico che non hanno luogo per strada o in piazza” e riguardano “l’efficacia performativa della creazione di uno spazio politico a partire dalle condizioni infrastrutturali esistenti” (pp. 199-201). A leggerle, di colpo ho riconosciuto la storia e il senso della Libreria delle donne di Milano, apertasi nel lontano 1975. Le situazioni che l’autrice evoca in queste pagine sono apparentemente distanti e diverse, ma il significato no: si tratta infatti di un agire politico che non calpesta i corpi, né il proprio né l’altrui, che non ignora la reciproca bisognosità, che non strumentalizza le relazioni né la dipendenza altrui, ma realizza, man mano che ciò sia possibile, le sue promesse per tutti e ciascuno.
Chi questo lo sa per esperienza, senta l’urgenza di scrivere, segua l’esempio di Judith Butler.