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Intervista. Losangelina, Amy Berg ha lavorato otto anni al film per raccontare oltre la musica tra lettere, immagini d’archivio, ricordi di amori, amici, famiglia Joplin.

 

Da ragaz­zina voleva soprat­tutto andar­sene, niente di più ovvio se si nasce alla soglia degli anni Ses­santa in una cit­ta­dina ame­ri­cana del Texas dove le ragazze sfo­gliano le rivi­ste di moda dispo­ste a tutto pur di essere le regi­nette di bel­lezza della scuola. E difatti appena ha potuto è scap­pata a San Fran­ci­sco, un grande amore, una donna, e sco­perte di vita, allu­ci­na­zioni, libertà. Quella che cer­cava di con­qui­starsi nella cit­ta­dina fami­liare, inter­pre­tando la parte della «cat­tiva ragazza» mai stanca di notti bian­che e di bevute. Che alle ragazze da coper­tina oppone altre imma­gini di donna, la sfida di una bel­lezza che «vive den­tro e fuori», e di un look che di lì a poco tutte avreb­bero copiato. Janis di Amy Berg  (in sala da oggi, 8 otto­bre) regi­sta losan­ge­lina impe­gnata poli­ti­ca­mente, quasi Oscar nel 2006 per Deli­ver us from evil, rac­conta la vita di Janis Joplin la voce bianca più nera della sto­ria musi­cale, icona di un’ epoca di sco­perta, rivolta e libertà, fug­gita gio­va­nis­sima dal sud raz­zi­sta dell’America, e morta nel mito a ven­ti­sette anni. E lo fa attra­verso le parole di amici, parenti (non pro­prio sim­pa­ti­cis­simi, quelli tipici che dicono «beh, sì era una ribelle, le pia­ceva scan­da­liz­zare» come fa il fra­tello), amori, com­pa­gni di band, nes­sun cri­tico o stu­dioso, molti archivi, alcuni bel­lis­simi, le imma­gini di Pen­ne­ba­ker a Wood­stock, lei sul palco con la voce roca e un dolore che sem­bra fon­dersi con tutto il resto, pub­blico, cielo, terra.

«Guar­dare le imma­gini di Janis men­tre canta è molto emo­zio­nante. Le sue musi­che e le sue parole nascono dalle espe­rienze della sua vita, dagli incon­tri, dai dolori che ha pro­vato, dalle ferite e dai momenti di feli­cità. Sono molto per­so­nali e al tempo stesso hanno una forza uni­ver­sale, rac­con­tano sem­pre qual­cosa che va al di là di lei».
Dolore, ingiu­sti­zie, emar­gi­na­zione? Ne sapeva qual­cosa lei, Janis, che al liceo «inco­ro­nano» il maschio più brutto della scuola. Ferite che bru­ciano, ma Port Arthur, dove cre­sce, con le sue caset­tine e i riti sociali, popo­lata dai raz­zi­sti del ku klux klan è «il posto più mer­doso della terra».

Amy Berg, che incon­triamo durante il festi­val di Vene­zia, dove Janis è stato pre­sen­tato in ante­prima fuori con­corso, è altis­sima, molto magra, appas­sio­nata. A que­sto film ha lavo­rato otto anni, e la «sua» Janis non è solo l’icona di una gene­ra­zione, anche se Berg ne cerca le tracce in un intrec­cio di inti­mità e dimen­sione col­let­tiva. C’è al di là del per­so­nag­gio pub­blico qual­cosa che segue con spe­ciale amore, una fra­gi­lità, e non sol­tanto nell’equazione con l’essere arti­sta, una dimen­sione femminile/femmnista in rivolta con­tro ste­reo­tipi e luo­ghi comuni dell’essere, forse non stig­ma­tiz­zata, istin­tiva, com­bat­tuta con la vita, come stare su quel palco davanti alla folla che non poteva esserci niente altro.

«Le let­tere di Janis, i suoi diari, le cose che diceva ci par­lano di una per­sona con un gran­dis­simo biso­gno di sen­tirsi amata e ammi­rata. È una ragaz­zina degli anni Cin­quanta che non accetta le regole del suo tempo. Si fa cac­ciare dalla scuola, cerca di costruirsi un per­so­nag­gio che la fac­cia notare. Voleva essere bella e invece diventa il ber­sa­glio dei com­pa­gni di liceo … Ciò che amava di più erano i con­certi. Quando can­tava Take a lit­tle piece of my heart sem­brava inten­desse pro­prio quello: prendi un pezzo del mio cuore».

Nel film ha uti­liz­zato mol­tis­simi mate­riali diversi, lettere.scritti, archivi di fami­glia, foto, film dei con­certi, inter­vi­ste a chi le è stato vicino oggi. Quale è l’idea fon­dante che tiene insieme tutto que­sto?
Capire la figura di Janis è stato un lavoro che ha preso molto tempo, al mon­tag­gio e prima ancora durante le ricer­che che sono state molto lun­ghe. E nono­stante tutto non sono sicura di esserci riu­scita. Volevo rac­con­tare l’influenza della figura di Janis non solo sulla sua epoca ma sulle diverse gene­ra­zioni, la sua voglia di vivere, di ridere, il suo umo­ri­smo, quel potere che aveva di met­tere da parte il suo dolore e vivere ogni istante nel pieno della sua inten­sità. Janis sul palco libe­rava ogni sfu­ma­tura del sen­ti­mento, tri­stezza, tra­ge­dia, eufo­ria, gri­dava per tutti gli emar­gi­nati eppure era anche felice. Credo che le sue bat­ta­glie sono state le stesse di qual­siasi ado­le­scente, se pensi oggi alla vio­lenza che c’è sui social media dove ogni sin­golo det­ta­glio può diven­tare molto impor­tante e distrug­gere una per­sona. In fondo siamo sem­pre alla dina­mica che si era sca­te­nata con­tro di lei a scuola, con­tro il suo modo di essere diretta, provocatoria.

C’è qual­cosa di spe­ci­fico da cui è par­tita in que­sta sua ricerca di Janis?
Le sue let­tere sono state un rife­ri­mento pre­zioso per­ché il suo modo i rela­zio­narsi al mondo vi appare con molta chia­rezza. Scri­veva agli amici, alla fami­glia, ai geni­tori, ai suoi amanti. Erano impor­tanti e per que­sto è stato fan­ta­stico che Cat Power abbia accet­tato di «pre­stare» la sua voce a Janis, è lei che le legge (nella ver­sione ita­liana è Gianna Nan­nini, ndr).Ha una tona­lità simile a quella di Janis, e poi anche le loro vite hanno dei punti in comune. Cat come Janis viene da sud, ha lasciato la fami­glia molto pre­sto e in un certo senso è sem­pre stata un outsider.

Il suo sguardo su Janis si con­cen­tra molto anche sulla sua bat­ta­glia di donna, non solo nella musica ma in ogni scelta. Janis rivo­lu­ziona l’immagine fem­mi­nile con una più libera dagli ste­reo­tipi di que­gli anni.

Sì, Janis ha aperto il cam­mino delle donne, è stata la prima donna nel rock, ha inven­tato una nuova moda fem­mi­nile e un’idea di bel­lezza più un modo di essere che legata all’aspetto fisico. Aveva sco­perto molto pre­sto quanto poteva essere cru­dele il mondo maschile … Janis è per­fet­ta­mente den­tro ai movi­menti del suo tempo, che è di grandi cam­bia­menti, la sua voce fa parte della controcultura.

Le sue can­zoni pre­fe­rite di Joplin?
Move Over e Sum­mer­time, anche se spesso cam­bio idea.


(il manifesto, 8/10/2015)