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da il Domani

Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, chiamato a rispondere in parlamento sul funzionamento del braccialetto elettronico, ha invitato le donne a rifugiarsi in una chiesa o in farmacia se allertate dalle forze dell’ordine di una violazione della misura cautelare applicata all’indagato, poiché lo strumento non consentirebbe un intervento immediato ed efficace delle forze dell’ordine.

Queste dichiarazioni non possono essere banalizzate come una semplice gaffe, sono, piuttosto, l’ennesima manifestazione di una profonda ignoranza istituzionale rispetto ai doveri dello Stato in tema di prevenzione e protezione nei casi di violenza di genere, poiché capovolgono, ancora una volta, la responsabilità della protezione e sicurezza e la trasformano in una questione individuale che la singola donna deve gestire meglio che può. Suona l’allarme, le forze dell’ordine ti avvisano, se tu non riesci a metterti in salvo, “te la sei cercata”.

Ancora.

Il sistema

Il sistema delle misure cautelari esiste per prevenire la reiterazione della violenza, e il braccialetto elettronico serve per vigilare sul rispetto delle disposizioni imposte dall’autorità giudiziaria, tuttavia non basta attivarlo, ma servono risorse, personale formato, protocolli chiari, investimenti strutturali. Serve soprattutto la consapevolezza politica che la protezione dell’incolumità delle donne che denunciano violenza di genere non può consistere nell’invito a “trovare rifugio” in una farmacia o in una chiesa, così come non si esaurisce nella previsione astratta di misure cautelari o di supporto:

come ha più volte ribadito la Corte europea dei diritti umani, gli obblighi di protezione che vincolano lo stato nei casi di violenza di genere impongono un intervento concreto, tempestivo ed efficace. Pensare che una donna debba scappare in un luogo sacro per proteggersi dalla violenza dopo aver denunciato e ottenuto una misura cautelare significa ammettere che lo Stato non è in grado di garantire l’effettività dei suoi provvedimenti.

Un diritto

Come femministe e come operatrici dei centri antiviolenza, per prevenzione, protezione e sicurezza intendiamo una pratica politica da risignificarsi costantemente alla luce dell’esperienza delle donne accolte nei centri e nelle case rifugio. La prevenzione non è prescrivere alle donne come comportarsi per evitare la violenza, ma riconoscere le radici culturali, giuridiche e sociali della violenza stessa. Non può essere uno sforzo predittivo che ricade sulla responsabilità individuale della donna, né può ridursi alla retorica del “doveva denunciare prima” oppure “nasconditi dove puoi”. La protezione, invece, è un diritto. Non è un gesto caritatevole, né una limitazione della libertà della donna, ma l’accesso a spazi abitabili, sicuri e temporanei, dove il tempo della relazione con sé e con le altre consente la riprogettazione della propria vita.

Infine, la sicurezza è quella costruita dalla comunità. Una sicurezza sociale, relazionale e condivisa, poiché la collettività si assume la responsabilità di riconoscere la violenza come un problema che riguarda tutte e tutti.

Chiedere alle donne di nascondersi è il contrario della prevenzione, della protezione e della sicurezza ed è offensivo per le donne che denunciano, per i saperi di chi lavora nei centri antiviolenza e per chi ogni giorno costruisce spazi reali di libertà. Il compito della politica e delle istituzioni è garantire che gli istituti giuridici e gli strumenti esistenti nell’ordinamento non siano solo un manifesto, ma un sistema coerente e funzionante, capace di gestire interventi tempestivi e concreti, in linea con gli obblighi positivi della Convenzione di Istanbul e che vincolano lo Stato a prevenire la violenza di genere e a proteggere effettivamente la vita e i diritti delle donne.