Insegnare a distanza, tra anonimato e intrusione nell’intimità: come salvare l’esperienza umana?
Traudel Sattler
3 Agosto 2020
Immaginate di parlare a 57 palline colorate che contengono delle lettere tipo ST, LM, AC, FD, GN… su uno schermo nero. Non solo: immaginate di insegnare loro, a queste palline, la vostra lingua madre. Un’esperienza ai confini della realtà. Questo è stato il mio primo impatto con quella che si chiama dad – didattica a distanza. Quella Elena, quella Francesca, quel Fabio, quel George – tutte quelle persone in carne e ossa conosciute in aula durante il primo semestre, d’un colpo trasformati in palline colorate senza faccia senza corpo e senza voce: infatti, le palline non emettevano suoni.
Finalmente sentivo una voce che ho riconosciuto per quella di una studentessa molto attiva anche nelle lezioni dal vivo: un sollievo! Dalle altre palline non uscivano segni di vita: tutti sembravano spiazzati e intimoriti. E io ero nel pallone. Come riprendere la comunicazione viva che è la natura stessa del mio lavoro? Dad – questo acronimo fa pensare alla parola inglese per “babbo” – ha creato parecchia ansia e disorientamento non solo in me, docente della generazione delle mamme, anzi, delle nonne, ma anche in quella delle figlie e dei figli, i digital natives che credevo superfamiliari con i social, abituati a mandarsi con disinvoltura foto, video e messaggi. Ma ora sento grida di aiuto: «Prof, non mi si apre l’audiofile», «Prof, la vedo ma non la sento», «Prof, non sono riuscito a salvare il compito, ho perso tutto»…
Impreparati e indifesi, ci siamo trovati catapultati in una dimensione sconosciuta. Abbiamo imparato, man mano, a farci vedere davanti alla videocamera. Impossibile vedere 57 facce, al massimo quattro alla volta, le altre rimangono semplici sigle. Una parte di loro, soprattutto ragazze, ha preferito partecipare alle lezioni senza farsi vedere. Dopo mi hanno raccontato che si sentivano impresentabili, in pigiama o non truccate. Ho pensato che sia stata forse una sana autodifesa digitale. Con la videocamera, infatti, invadiamo i loro spazi intimi. Ho sentito dire da una collega: «Ci hanno aperto le loro case e noi abbiamo aperto le nostre». Ma per me è stato tutt’altro che un gentile invito reciproco, è stata una visita imposta. Non mi sento un’ospite gradita quando entro in quelle case e vedo camerette da ragazze, ordinate, magari con due letti singoli che mi raccontano l’esistenza di una sorella, vedo cani, gatti, scruto mobili e soprammobili che mi raccontano il gusto e lo status sociale della famiglia… Mi sento quasi una guardona.
Il mio imbarazzo cresce all’esame online con sorveglianza individuale: mi sento a disagio a osservare, tramite la videocamera che la candidata è costretta a tenere accesa, la sua faccia tutta concentrata sullo schermo che sarebbe il suo foglio bianco: ogni movimento, ogni reazione, ogni emozione da venti centimetri di distanza! Incluso l’audio! La fronte corrugata, mastica nervosamente un chewing gum, beve distrattamente da una bottiglietta d’acqua mentre continua a fissare lo schermo, digita, sospira… E io distolgo lo sguardo dallo schermo perché mi sembra una tale intrusione, una violenza! Mai nella vita fissi una persona da così vicino tranne in situazioni di grande intimità. Mi dico che io stessa non vorrei essere spiata durante il lavoro del pensare: chi mi è vicina mi ha detto che faccio delle smorfie, degli strani versi…
Ma la cosa più preoccupante: magari fossi solo io a poter osservare queste espressioni dell’anima e l’ambiente circostante: tutto ciò è carne, sì, carne viva! per i denti di chi raccoglie dati per sviluppare metodi per il riconoscimento vocale, il riconoscimento facciale, l’analisi e la manipolazione dei nostri comportamenti. Chi ha letto Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff si rende conto, già dopo poche pagine, che qui stiamo fornendo materia prima in quantità mai vista. E non si tratta di dati come quelli già raccolti da facebook, con autorappresentazioni abbellite e truccate, ma di emozioni senza filtro. Non possiamo più far finta di non sapere, di ignorare la pervasività e pericolosità di questo sistema di estrazione dati. Bisogna parlarne.
Ora il mio dilemma: la mia idea di insegnamento è quella di creare un ambiente sereno, di incoraggiamento, di scambio e collaborazione; tutto ciò mi sembrava già ostacolato dalla separazione fisica e dalla preoccupazione per il buon funzionamento dei mezzi informatici. Come parlare di questo pericolo di esproprio della nostra esperienza umana, senza aggiungere angoscia alla preoccupazione?
Sento più che mai il bisogno di riflettere insieme, insieme a colleghe e studenti – online, per forza. Dopo quasi quarant’anni di insegnamento dico che davanti a questo scenario nuovo dobbiamo imparare insieme a salvare la nostra esperienza umana. Ho cominciato facendo leva, spontaneamente, su pratiche che per me sono sempre state essenziali: per prima cosa ho intensificato lo scambio con le colleghe (molti nodi “pre-Covid” sono venuti al pettine in questa situazione di emergenza, sono scoppiati conflitti e occasioni di creare chiarezza). Ci siamo aiutate a vicenda nell’affrontare i mezzi tecnologici. Qualcuna sì è anche appassionata e ha scoperto nuove modalità e possibilità didattiche. Abbiamo mostrato la collaborazione e la relazione tra noi docenti, facendoci vedere insieme sul video, e sembra che questo abbia creato un clima di fiducia tra chi doveva affrontare l’esame.
Ciò che è cambiato è la mia postura nei confronti delle/degli studenti: so di navigare a vista e sento il bisogno di trovare un orientamento insieme a loro. Ho proposto, infatti, dopo gli esami, una sessione di riflessione e scambio sul proprio vissuto. Erano in poche (solo chi ha voglia di riflettere partecipa), ed è stato uno scambio intenso: si è creata quella che Chiara Zamboni chiama “comunità del sentire”, è stato quasi un incontro di autocoscienza.
Ora ci dicono che a settembre le lezioni riprenderanno online, e so che un atteggiamento di puro rifiuto non è possibile né sensato. Penso che dalla comunità del sentire debba nascere una comunità di pensiero e invenzione. Il “pensare in presenza” non sarà possibile nella forma che conosciamo noi, ma la riflessione comune è indispensabile: troveremo modalità nuove. Incontrerò una quantità di palline colorate sconosciute, ma sono sicura che vorranno uscire dalla loro esistenza anonima. Sono fiduciosa che attiveranno le loro risorse e la loro creatività, e io con loro, a sperimentare e creare una realtà nuova.