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Ho letto con grande interesse “Il capitale amoroso” di Jennifer Guerra e sono felice della nostra collaborazione nel realizzare questo numero di Via Dogana 3 dedicato alla forza politica dell’amore e all’amicizia politica.

Dell’autrice ho apprezzato subito il coraggio di essersi impadronita di un tema così spinoso, come è quello dell’amore, e di insistere nel proporlo come una forza politica, come una pratica politica da esercitare nella quotidianità. 

Ci accomuna la scommessa di pensare che il femminismo sia una forza trasformativa in grado di cambiare questo mondo alla radice: anche lei, infatti, parte dalla consapevolezza che la questione non è essere incluse in un mondo che non ci prevede.

Naturalmente l’interrogazione sul come farlo è sempre aperta.

La strada di orientarsi con l’amore, proposta in questo numero, delinea il terreno di una vicinanza di idee in grado di alimentarsi a vicenda.

Jennifer Guerra nella sua introduzione dice: «la tesi di questo libro è che amore e politica si influenzino reciprocamente. La politica ci dice chi e come dobbiamo amare, quanto tempo abbiamo per farlo e in quali termini. L’amore, d’altra parte, è una forza che è in grado di trasformare positivamente la dimensione politica, insegnandoci a stare in relazione con l’altro».

Al Capitale amoroso di Jennifer Guerra fa eco un filone di pensiero e di esperienze presente da decenni nel femminismo della differenza, per impulso soprattutto di Luisa Muraro. È un filone che ha interessato alcune (tra cui mi metto anche io) e non altre e non si è mosso in modo lineare, ma carsico, con insorgenze e momenti sotterranei, rimanendo però costante, a mo’ di segnale, la circolazione di gioia e di erotismo che si avvertiva nei momenti di incontro.

Sulla nostra rivista questo tema è presente fin dagli inizi: come già ricordava Laura Colombo, nel terzo numero, Luisa Muraro scrive un articolo intitolato L’amore come pratica politica (dicembre ’91). Dieci anni dopo la stessa autrice, in Far esserepassaggi per la politica del simbolico, riprende da Heidegger “il potere del voler bene” e scrive: «Il possibile vero e proprio, che non si oppone alla realtà e che può far essere, il potere che vuole bene, dotato di una tacita forza che si manifesta con l’accadimento del nuovo, che cos’è infatti se non la potenza del simbolico materno?» (VD 54, marzo 2001).

Si deve ancora a lei la ripresa dalla tradizione mistica della formula “dell’intelligenza dell’amore». Nel volume collettivo Duemilaeuna, donne che cambiano l’Italia (Pratiche editrice, 2000), scrive che quella formula può nominare qualcosa che ha scoperto con il femminismo: «Passando dalle rivolte del Sessantotto al movimento delle donne, ho scoperto che l’esporsi agli incontri e ai rapporti diventa fonte di esistenza libera non per quello che con gli altri e degli altri si può fare, ma per quello che di sé cambia in quella esposizione. E ho capito che, fuori dalla violenza, aperta o occulta, del potere sugli altri, non c’è altro modo di cambiare le cose che essere disposti al cambiamento di sé, il paradigma perenne di questa disponibilità essendo l’innamoramento». Secondo Muraro mentre i filosofi da Platone a Marx a Nietzsche, hanno tentato di oltrepassare i limiti della condizione umana mirando alla autosufficienza del singolo, «il passaggio diretto lo apre l’intelligenza dell’amore, l’amore che vuole essere all’altezza ma non teme di essere trovato mancante, e converte il piombo di una insopportabile dipendenza nell’oro di una mancanza accettata che apre la porta ad altro» (pag. 155).

Nella redazione aperta di Via Dogana 3 Jennifer Guerra, a partire da una dolorosa esperienza personale, ha messo fortemente l’accento sull’amore di sé, sentendosi vicina a Carla Lonzi quando ne parla come «esperienza di combaciare con sé stessa». Io sono pienamente d’accordo con lei. Il per sé è imprescindibile in una politica che proprio dal sé muove e si alimenta di quell’irrinunciabile che ciascuna si porta dentro assieme a desideri e bisogni.

La porta stretta sembra essere, dunque, come tenere insieme l’amore di sé con l’amore per gli altri.

Se l’amore di sé è imprescindibile, è tuttavia esposto al rischio di trasformarsi in puro egoismo sulle difensive, in ricerca di successo individuale così consono ai tempi neoliberisti in cui viviamo; mentre la seconda polarità, l’amore per gli altri, è sì apertura al mondo, ma apre anche al rischio di reintrodurre quella logica del sacrificio tipicamente femminile che il femminismo ha combattuto in tutte le sue forme oppure quella logica della politica come dover essere, come sforzo della buona volontà.

L’amore di sé e l’amore per gli altri non sono tuttavia componenti che si possono dosare con il bilancino, si nutrono invece di invenzione simbolica e creatività politica.

Nel libro di Jennifer Guerra mancano esempi, per cui può essere inteso come uno slancio teorico e utopistico destinato a rimanere tale. Io so, invece, che pratiche in tal senso ci sono state, ci sono e potranno esserci ancora. Vorrei, quindi, arricchire la proposta politica di orientarsi con l’amore richiamando due esperienze: una geograficamente lontana, che ha avuto significativi scambi con la nostra libreria, l’altra vicinissima a me in quanto vi ho partecipato intensamente.

Le Madres de Plaza de Mayo rappresentano un esempio mirabile che tiene insieme il per sé e per gli altri attraverso invenzioni simboliche e politiche. Erano per la maggior parte semplici casalinghe quando sono state colpite dall’immane tragedia della scomparsa di figli e figlie ad opera della dittatura militare in Argentina, dopo il golpe del 1976. La loro storia è nota in tutto il mondo e rimando al bel libro di Daniela Padoan, Le pazze (Bompiani 2005).

Pazze. Da sole si definiscono tali: «pazze d’amore, pazze del desiderio di ritrovare i figli», rovesciando l’insulto che veniva loro rivolto per andare in Piazza ed essere arrestate tutti i giovedì. La loro invenzione è stata la “socializzazione della maternità”: madri non solo dei singoli figli e figlie ma di tutti i trentamila desaparecidos e poi di tutti e tutte quelle che patiscono un’ingiustizia e soffrono. Scrive Daniela Padoan: «le Madri hanno reso politico il “lavoro dell’amore” attraverso una legittimazione che si sono date l’un l’altra, riconoscendosi l’autorevolezza e la necessità della parola detta in pubblico» (pag.408). Si dicono sempre “incinte” dei loro figli e di questa maternità sempre in fieri fanno un luogo di creatività politica che orienta in altro modo il contesto in cui vivono. Durante la crisi economica argentina, le Madres partecipano al trueque e portano al mercato del baratto tutto: dalle scarpe usate, ma risuolate, ai dolci fatti in casa da loro stesse, agli strumenti per la scuola, ma si muovono nel mercato con un senso del collettivo diverso per cui non chiamano la polizia se qualcuno ruba o fa incetta. Intervengono in modo relazionale perché «con tuo figlio o tua figlia non scambi scarpe bucate, non chiami la Polizia se vogliono più torte di quelle che hai». (Gianna Mazzini, Scarsità e abbondanza, VD 64, marzo 2003).

L’altro esempio che mi coinvolge di persona, insieme a tante altre insegnanti, riguarda la scommessa di politicizzare la scuola, di farne un luogo di politica delle donne.

La relazione come forma politica contiene già in sé potenzialmente un diverso orientamento di fondo e per me introdurla nella quotidianità dell’insegnamento, sia nel rapporto con le colleghe che con studenti e studentesse, ha significato scoprire che «il motore di questa scuola, per cui continuo ad appassionarmi a ciò che faccio, con gioia, con sofferenza, a volte con irritazione, ha una radice di amore. Per quanto ne so dalla mia esperienza, l’amore è molteplice: è per il proprio lavoro, e stimola a continuare a imparare per farlo bene; è per il sapere, e lascia vivere la curiosità e il gusto; è quel sentire interno che muove al rispetto di bambini e bambine, di chi per età, per cultura, per posizione nella struttura scolastica, è in una situazione di dipendenza» (Buone notizie dalla scuola, pag. 69, Pratiche Editrice, 1998). La relazione a scuola non ha niente a che fare con lo psicologismo pietistico che intende un atteggiamento sempre accogliente che procede distaccato dall’insegnamento. Significa invece trasformare in profondità le pratiche: la relazione in presenza fa rientrare in modo dirompente i corpi con il loro sesso, la loro storia e la vita concreta, introduce l’implicazione soggettiva, compresa quella dell’insegnante, sposta inevitabilmente dal ruolo di trasmissione di un sapere prodotto altrove, aprendo a qualcos’altro in cui può accadere l’imprevisto. Con la relazione sono soprattutto le procedure di controllo a perdere di senso e infatti nell’Autoriforma gentile molto abbiamo lavorato per dismettere le misurazioni oggettive come i voti e i test e praticare forme più amichevoli e colloquiali, che possano dare continuità alla relazione stessa attraverso il parlarsi e la rinnovata possibilità di fare delle mediazioni nel linguaggio.

Le pratiche di relazione orientate dall’amore per la comunità, che sia una scuola come nel mio passato lavorativo o la redazione di una rivista come nel mio presente, contengono un elemento che trascende l’egoismo, va oltre l’io perché c’è qualcosa di più grande di cui si è parte, c’è una dimensione collettiva in carne ed ossa da cui non si prescinde nel pensare e nell’agire. In questa logica, un successo è sì personale, ma non solo personale, sia perché è stato sostenuto da una rete di relazioni sottostante sia perché a sua volta la sostiene. Molto lavoro di tessitura fatto dall’una o dall’altra, di scambio, di messa a punto, di attenzione al dettaglio, ha contribuito a quel successo. La consapevolezza di ciò diventa alimento per le une e per le altre e trasmette forza sia alla singola che all’impresa in comune.