Impossibile essere umani. Lo strappo di Jake Wood, ex marine a capo della ong degli aiuti a Gaza
Francesca Cardone
26 Maggio 2025
da HuffPost
Jake Wood, ceo della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), si è dimesso a poche ore dall’inizio delle operazioni di distribuzione nella Striscia di Gaza. Una decisione clamorosa e inattesa che getta nuove ombre sul già controverso progetto di aiuti umanitari targato Israele-Stati Uniti.
Wood, classe 1983, è un veterano dei Marines decorato per il suo servizio in Iraq e Afghanistan. Dopo il congedo dalle forze armate, ha fondato Team Rubicon, un’organizzazione umanitaria che mobilita veterani statunitensi per rispondere ai disastri naturali e alle crisi globali. Oggi è anche alla guida di Groundswell, piattaforma tecnologica per la filantropia aziendale. Autore del libro Once a Warrior e insignito della Presidential Citizens Medal, è una figura rispettata sia nel mondo militare che in quello civile e umanitario americano. La sua nomina alla guida della Ghf – sostenuta da ambienti vicini a Washington e Gerusalemme – sembrava quindi essere la figura perfetta, ad hoc, per dare credibilità e legittimità a un’iniziativa oggetto di forti critiche da parte di agenzie Onu e ong internazionali.
Il passo indietro di oggi, invece, suona ora come un chiaro segnale di dissenso politico nei confronti di un piano che, a suo giudizio, compromette i principi fondamentali dell’azione umanitaria.
«Due mesi fa sono stato contattato per guidare la Gaza Humanitarian Foundation grazie alla mia esperienza in campo umanitario» ha dichiarato Wood, «come molti, sono stato sconvolto dalla fame a Gaza e mi sono sentito moralmente obbligato ad agire». Wood avrebbe dovuto coordinare la distribuzione di 300 milioni di pasti in 90 giorni, raggiungendo inizialmente 1,2 milioni di persone, attraverso quattro centri situati nel sud della Striscia di Gaza, in un sistema che escludeva qualsiasi coinvolgimento dell’apparato Onu. Quando il progetto è entrato nel vivo e ha preso forma, però, ha capito che non c’erano le condizioni minime di indipendenza e di trasparenza per operare. «È chiaro che non è possibile implementare questo piano mantenendo i principi fondamentali di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza, che non sono disposto ad abbandonare», scrive nella sua ultima nota al board, domenica 25 maggio.
Fondata nel febbraio 2025, la Gaza Humanitarian Foundation, con sede a Ginevra, è sostenuta da Stati Uniti e Israele. Sin dall’inizio, tuttavia, ha incontrato una forte opposizione da parte di Nazioni Unite e principali ong, che denunciano l’assenza di rappresentanza palestinese e la cooperazione diretta con le autorità israeliane, mettendo così in discussione la sua neutralità. Ad oggi sul territorio palestinese operano circa 200 ong con corrispettivi partner, e 15 Agenzie delle Nazioni Unite, secondo cui questo piano strumentalizza l’assistenza umanitaria, mettendola nelle mani di una delle parti in conflitto. «Noi non lavoriamo con le parti in conflitto», ha dichiarato Bushra Khalidi, responsabile delle politiche di Oxfam nei Territori palestinesi. C’è poi l’organizazione Trial International, che ha chiesto indagini formali in Svizzera per valutare la legalità delle operazioni, in particolare riguardo all’impiego di compagnie private di sicurezza, come UG Solutions e Safe Reach Solutions, per la protezione dei convogli umanitari. Dubbi anche sulla trasparenza finanziaria dell’intero piano: come nota il Financial Times, la stessa GHF non ha ancora presentato una lista pubblica dei suoi finanziatori.
Nonostante l’uscita di scena di Wood, Ghf ha iniziato oggi le operazioni, con un primo centro attivo di distribuzione degli aiuti nella Striscia e con piani di espansione rapida. «I nostri camion sono carichi e pronti a partire», si legge in una nota diffusa dall’organizzazione. Il piano della Ghf prevede una drastica riduzione dei punti di distribuzione alimentare – ribattezzati Secure Distribution Sites (SDS) – che passerebbero dagli attuali 400, gestiti da ong con una presenza storica sul territorio, a soli quattro centri, tutti situati nel sud della Striscia. Questa scelta costringerebbe migliaia di civili palestinesi del nord, già provati dai bombardamenti, a spostarsi per accedere a razioni essenziali di cibo. Va ricordato che lo svuotamento programmato del nord di Gaza è uno degli obiettivi dichiarati dell’offensiva militare israeliana in corso. In questo contesto, il piano Ghf non solo – secondo un portavoce dell’Unicef – «potrebbe aumentare le sofferenze di bambini e famiglie a Gaza», ma per molti osservatori risulta perfettamente allineato con la strategia israeliana di spopolamento dell’area settentrionale, già colpita da evacuazioni forzate e gravi distruzioni.
La critica che rimbalza fra analisti e operatori del settore è in altre parole che la nascita della Gaza Humanitarian Foundation rappresenti un nuovo passo nell’uso politico degli aiuti umanitari. Il blocco totale imposto da Israele il 2 marzo scorso – su cibo, medicinali e carburante – ha generato una crisi umanitaria senza precedenti. La centralizzazione degli aiuti in una singola entità, sotto stretto controllo israeliano, rischia di trasformare il cibo in uno strumento di pressione e arma politica contro la popolazione civile. Il governo israeliano giustifica il piano come misura per impedire che Hamas intercetti gli aiuti, ma viene accusata di perseguire l’obiettivo reale di ridurre l’autonomia delle agenzie internazionali e delle organizzazioni palestinesi.
Il crescente dramma umanitario sta alimentando un’ondata di indignazione internazionale, che inizia a farsi sentire anche tra gli alleati storici di Israele. Con l’uscita di scena del suo stesso direttore, la Ghf avvia le operazioni sotto una nube di sospetti e critiche. La credibilità di ogni piano di assistenza dipende più che mai dalla trasparenza, dalla fiducia e dal rispetto dei principi fondamentali del diritto umanitario internazionale. In assenza di questi presupposti, anche gli aiuti rischiano di trasformarsi in strumenti di pressione anziché in strumenti di soccorso. Con la sua scelta, Jake Wood ha chiaramente indicato di non voler essere complice di un sistema che, a suo giudizio, non è in grado di garantire quei valori.