Condividi

A L’Osservatore Romano, 22 aprile 2020

Quando per me l’idea di andarmene da questo mondo non voleva dire praticamente niente, per me morivano solo gli altri; poi a poco a poco sono entrata anch’io nella categoria dei vecchi, ancora non destinata a morire ma con il sentimento che la mia vita si stava consumando. In questa fase ho fatto delle riflessioni legate alla mia morte, tra le quali che a suo tempo avrei lasciato questo mondo senza lasciar detto nulla a quelli che ci restavano: per me avrebbero parlato i miei scritti, mi piaceva pensare, il mondo che io lascio, a loro sembrerà ancora nuovo (e, in caso, da salvare dai disastri ambientali, annunciati come prossimi).

L’emergenza globale del nuovo virus ha fatto crollare questa costruzione mentale nei termini più imprevedibili: mi resta da vivere non so quanto ma il mondo sta cambiando per tutti, e nessuno sa come cambierà. Che cosa possiamo dire oggi noi che siamo vecchi? Posso fare qualcosa con le mie forze residue? E che cosa? Che cosa faranno quelle e quelli che restano? Come vivrà la generazione che viene?

Si fanno delle ipotesi, delle previsioni, delle congetture, oltre a formulare analisi critiche seguite da severe e giuste conseguenze o da accorate raccomandazioni. Si tratta, in sostanza, di adoperarsi perché non il potere sia la ragione della politica ma una maggiore giustizia sociale e una convivenza pacifica così da essere meglio preparati a questo tipo di emergenze, e più umani.

 Leggo e ascolto, ma ogni volta che mi trovo d’accordo, anzi: più mi trovo d’accordo e più sono presa da un dubbio che mi toglie la parola: non ne siamo capaci. Però… però, mi dico, l’emergenza ha mobilitato il personale sanitario e altri, donne e uomini, a dare il meglio di sé fino al limite delle loro forze e a rischio di ammalarsi. Loro, che sono persone non eroiche nella normalità del vivere, in condizioni estreme riescono a trovare le energie e mi chiedo: dove hanno trovato le forze necessarie? Le hanno trovate, questo è il fatto: dunque, l’umanità è capace di volere e condividere qualcosa di buono?

Da qualche parte nel mondo, in questi giorni su un grande muro esterno è comparsa questa scritta: “Non torniamo alla normalità, il male è questo”. Verità paradossale ma vera.

Abbiamo creduto normale accettare che nazioni povere fossero impedite di migliorare a causa del debito che hanno con i paesi ricchi, Non abbiamo neanche notato di essere regolarmente complici dei più forti, e sopportiamo o troviamo naturale che i rapporti tra le persone e tra le nazioni siano regolati dalla forza. Ci consideriamo fortunati perché abbiamo la necessaria assistenza sanitaria, che difetta o manca a tanti altri nel mondo. Si parla di libertà e si pensa alla libertà di farsi concorrenza anche nel commercio di beni indispensabili…

E noi continueremo a chiamare normalità questo stato di cose? Con quello che segue: guerre per assicurarsi risorse naturali, paesi resi invivibili da guerre civili, commercio di armi, alleanze ai fini della superiorità militare…

Sono una donna e quando quelle della mia generazione si sono dette che la subordinazione femminile al mondo degli uomini non è normale, che non potevamo accettarla e che non era accettabile neanche dagli uomini, questo stato di cose ha cominciato a cambiare profondamente a cominciare dai rapporti tra donne come anche quello con l’uomo. La subordinazione durava si può dire da sempre ma quando la consapevolezza ha cominciato a diffondersi come un contagio e il dominio maschile è stato visto per quello che aveva di iniquo e sbagliato, non aveva più credito ed è venuto meno. Queste cose succedono, come è successa la mobilitazione eroica di gente normale per aiutare il prossimo bisognoso.

Perché succedano, ci vogliono delle circostanze favorevoli. D’accordo. Forse è venuto il tempo favorevole perché una nuova generazione si mobiliti per salvare il pianeta dal disastro ecologico e l’umanità dall’egoismo fatto sistema, le due cose insieme perché insieme vanno. Non sul piano economico, si dirà. Infatti le circostanze favorevoli non bastano, ci vuole anche una presa di coscienza personale, contagiosa e condivisa, ci vuole un libero diffuso con-sentire. E questo è a causa della libertà la cui possibilità, prima di essere un diritto umano, prima di essere una conquista, ci è donata con la parola.