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Da Il Quotidiano del Sud – «Quello che succede oggi in Medio Oriente è per Israele un vero e proprio suicidio. Un suicidio guidato dal suo governo, contro cui – è vero – molti israeliani lottano con tutte le loro forze, senza riuscire a fermarlo. E senza nessun aiuto, o quasi, da parte degli ebrei della diaspora» scrive la storica Anna Foa nel suo libro di recente pubblicazione Il suicidio di Israele edito da Laterza. Ebrea della diaspora, l’autrice si rivolge a tutte/i le/gli ebree/i del mondo, in particolare a quelle/i dell’Italia, affinché prendano coscienza della necessità e dell’urgenza di agire per riappropriarsi dell’ebraismo e della memoria della Shoah, separandoli dallo Stato d’Israele e dai sionisti al governo, per fermare, prima che sia troppo tardi, l’antisemitismo insorgente.

«Gli ebrei – scrive – sono assimilati tout-court agli israeliani, ai sionisti e la guerra di Gaza alimenta ovunque l’antisemitismo» che «non è mai morto del tutto nel mondo, nemmeno nell’Europa i cui ebrei sono stati completamente distrutti nella Shoah». «Come fermare il suicidio di Israele se non attraverso una sollevazione dell’intera società? E come possono partecipare gli ebrei della diaspora?», visto che «quanto avviene si delinea come una catastrofe non solo per lo Stato ma anche per il resto del mondo ebraico?». Come spiegare quella identificazione? Per farlo, l’autrice ripercorre la storia del sionismo, anzi dei sionismi, e quella dello Stato d’Israele, nato come Stato ebraico, di tutti gli ebrei del mondo, cancellando «quella parte del sionismo che avrebbe voluto ebrei e palestinesi insieme in un solo Stato». Tale identificazione si completò col processo a Gerusalemme ad Eichmann con cui «lo Stato d’Israele si poneva come l’erede dei sei milioni di ebrei assassinati nella Shoah e si assumeva il ruolo di mantenerne la memoria». Poi nel 1974, con l’occupazione di Gaza e Cisgiordania, arrivarono i coloni, i sionisti religiosi messianici, oggi al potere, sostenitori della «terra d’Israele data loro da Dio e loro compito era colonizzarla e mantenerla ebraica». «Essi chiamavano – e ancora oggi chiamano – i territori occupati coi loro nomi biblici, Giudea e Samaria, a significare la volontà di considerarli parte integrante di Israele».

Il libro è un crescendo di domande. Come possono gli ebrei della diaspora non reagire di fronte ai morti di Gaza che sono opera di uno Stato che si dice democratico, ma che non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas? Come possono parlare solo dell’antisemitismo senza guardare a ciò che in questo momento lo fa divampare, la guerra di Gaza? Come respingere l’assimilazione fra israeliani ed ebrei quando nella diaspora le voci contro Netanyahu sono flebili e accusate troppo spesso di antisemitismo? Come possiamo oggi limitarci a condannare l’antisemitismo che cresce, estendendo il termine “antisemitismo” ad ogni condanna della guerra di Gaza?

«Occorre una definizione dell’antisemitismo – è la sua risposta – che consente di distinguere nettamente ciò che è antisemitismo e ciò che non lo è». Certo, aggiunge, «è ingiustificabile l’atroce massacro del 7 ottobre ma altrettanto ingiustificabile però è chiudere gli occhi di fronte al massacro di Gaza, alle parole di pulizia etnica dei ministri di Israele, alla politica di Netanyahu che sta trascinando Israele nell’abisso» e rischia di trascinare con sé anche gli ebrei della Shoah vanificando l’insegnamento di tutti questi anni dei testimoni «mai più a nessuno». Conclude il libro con la consapevolezza che «non si può dare per scontato» che l’odio scatenato da entrambe le parti un giorno cesserà. Ma non ci sono altre strade. Un libro di una ebrea coraggiosa.